Dopo quattro anni di Große Koalition, la Germania resta una potenza a metà

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Dopo quattro anni di Große Koalition, la Germania resta una potenza a metà

Dopo quattro anni di Große Koalition, la Germania resta una potenza a metà

30 Maggio 2009

A quattro anni dalla sua ascesa al potere, Angela Merkel ha dimostrato di incarnare alla perfezione i tratti che da mezzo secolo contraddistinguono la politica estera e di difesa tedesca. Estremamente moderata nei toni, la Cancelliera ha cercato il compromesso e la mediazione, mantenendo la barra del timone saldamente ancorata alla logica del trading State, formulata da quello che è stato il primo ministro degli Esteri della Germania riunificata, Hans-Dietrich Genscher, e del multilateralismo. Lo ha fatto in occasione del G8 di Heiligendamm e durante il semestre di Presidenza tedesca del Consiglio dell’Unione Europea; ma anche in tutte le altre circostanze nelle quali la Germania ha dovuto affrontare situazioni oggettivamente difficili, come il dossier iraniano e la missione ONU in Libano. Insomma, anche quando si è trattato di impartire una linea precisa alle manovre della Bundeswehr al di fuori dei confini della Repubblica federale, la signora Merkel si è mostrata assai prudente. Sono quindi lontane dalla realtà le accuse circa le risorgenti velleità militariste e da grande potenza della Germania, manifestatesi – secondo qualcuno – nella lotta senza quartiere per un seggio permanente al Palazzo di Vetro, nonché nella scarsa disponibilità da parte di Berlino ad individuare nell’Unione Europea l’interlocutore privilegiato per la risoluzione delle controversie internazionali.

In nessun altro paese, infatti, lo scetticismo verso il riarmo e le missioni militari è così forte come in Germania. Di qui la gradualità con cui sta avvenendo, ed è in parte avvenuta, la transizione da una politica estera fatta principalmente dalla diplomazia ad una politica estera in cui l’uso della forza non è più da considerare come un tabù. In questi quattro anni, il dislocamento delle truppe tedesche su suolo straniero non ha subito contraccolpi particolari rispetto alle due legislature precedenti, nelle quali va piuttosto rintracciato il vero punto di snodo nel modo di condurre la politica estera da parte della Germania riunificata. Fino alla decisione del gabinetto rosso-verde di appoggiare la missione NATO contro Milosevic, la Repubblica federale aveva sempre nicchiato di fronte alla prospettiva di una militarizzazione della propria politica estera, limitandosi ad una timida apertura ad interventi umanitari di rango minore (le operazioni in Cambogia e Somalia tra il 1991 e il 1992) sotto egida ONU e previa approvazione del Bundestag.

Un primo scossone si ebbe nel 1993, quando il governo incaricò la Luftwaffe di garantire il divieto di sorvolo sui cieli della Bosnia. Spd ed Fdp promossero un ricorso alla Corte Costituzionale, per contestare un simile impiego di milizie fuori dai confini nazionali. Anche in quell’occasione la “questione tedesca” riemerse prepotentemente dal tessuto carsico della colpa collettiva. Ma con una famosa sentenza del 1994 la Corte di Karlsruhe stabilì che la Germania, essendo parte integrante del sistema di sicurezza ONU, avrebbe dovuto assumersi anche gli impegni ad esso connessi in sede NATO, purché consentiti dal Consiglio di Sicurezza. Solo nel marzo 1999 la Germania tracciò una linea di demarcazione netta con il suo ingombrante passato – che pure rimane ancora oggi metro imprescindibile per valutare l’opportunità di ciascuna missione militare – riuscendo nell’arduo compito di normalizzare il suo approccio alla politica di difesa. In questa legislatura l’esecutivo di Große Koalition ha proseguito sulla via tracciata nell’ultimo lustro, mantenendo di stanza nel nord dell’Afghanistan il proprio contingente, pur senza un chiaro consenso dell’elettorato. Dinanzi alle richieste giunte prima dalla NATO e poi dall’amministrazione americana di approfondire ulteriormente il proprio impegno nella regione, non solo in termini numerici ma di responsabilità sul campo, la Cancelliera ha lasciato più volte intendere di non potersi spingere oltre, per quanto abbia ribadito, in un suo recentissimo incontro con il presidente Karzai, l’impegno della Germania nella lotta al terrorismo e nell’addestramento delle forze di polizia locale. Ad oggi, dopo l’invio nei mesi scorsi di nuovi 600 soldati, il contingente tedesco conta circa 3.500 unità, stanziate nelle retrovie nel nord dell’Afghanistan, che diverranno 4.100 entro il mese di agosto, in corrispondenza delle elezioni presidenziali.

Già nell’autunno scorso Berlino aveva rifiutato di estendere i suoi compiti alla lotta del traffico di oppiacei nel quadro della missione ISAF della NATO, temendo una radicalizzazione del conflitto. La sua parte in questo atteggiamento di ritrosia l’ha giocata anche il dissenso (trasversale) interno al governo di unità nazionale sulla reale legittimazione giuridica di cui gode oggi la missione a livello internazionale. Forti attriti vi sono stati anche di recente in merito alla natura e ai limiti dell’operazione UE anti-pirateria al largo delle coste somale. La Germania vi ha contribuito spedendo una fregata della Marina militare, ma solo poche settimane fa l’impossibilità di impiegare forze speciali (GSG 9) per la liberazione degli ostaggi sulla portacontainer Hansa Stavanger ha evidenziato l’estrema fragilità della missione tedesca. Di qui il tentativo della signora Merkel e del suo Ministro degli Interni, Wolfgang Schäuble, di varare in tutta fretta una riforma della Legge fondamentale, che consenta modifiche al mandato della Bundeswehr anche senza approvazione parlamentare. L’idea, che sembra seguire un copione già sperimentato una decina d’anni fa, è però stata duramente bocciata dall’Spd.

Le prospettive per la prossima legislatura sono quindi di questo tenore: l’Unione Cdu/Csu spinge (e non è una novità) affinché l’opinione pubblica accetti l’idea di un impiego della Bundeswehr su scala globale, senza troppi lacci e lacciuoli. L’Fdp, qualora vi dovessero essere i numeri per una coalizione giallo-nera, farà un po’ da argine, come ai tempi di Kohl e Genscher, ricercando il più possibile il coinvolgimento dell’Unione Europea. I socialdemocratici, dal canto loro, difficilmente tenderanno a dare per scontato il ruolo del Parlamento e, benché alcuni considerino che anche sul dossier iracheno l’Spd sia stata nei fatti più “americana” di quanto in realtà si sia percepito (si pensi alla vicenda del presunto coinvolgimento dei servizi segreti tedeschi e dell’attuale Ministro degli Esteri Steinmeier nell’attacco a Saddam Hussein); ebbene nonostante ciò, difficilmente si impegneranno ad avallare iniziative unilaterali o troppo rischiose per i militari e, di conseguenza, per l’indice di gradimento del governo presso l’opinione pubblica.