Dopo tanti bei discorsi Obama ha lasciato il Medio Oriente disorientato
14 Febbraio 2011
Fu proprio il Cairo il palcoscenico che Barack Obama scelse per dire al mondo arabo che la politica di sordo unilateralismo degli Stati Uniti di Bush era da considerarsi terminata. Il netto rifiuto della dottrina dell’ex Presidente e dei suoi principali cardini ideologici – la convinzione che il mondo fosse lacerato dallo scontro di civiltà e la volontà di voler saturare questa ferita esportando la democrazia – fu l’alveo nel quale prese forma il discorso che Obama tenne nel 2009.
Il multipolarismo concertato di stampo wilsoniano, era ciò che Obama offriva al Medio Oriente e al mondo intero. Egli lo disse con parole chiare: “So che negli ultimi anni ci sono state parecchie controversie sulla promozione della democrazia, in gran parte connesse alla guerra in Iraq. Perciò voglio essere molto chiaro: nessun sistema di governo può o deve essere imposto da una nazione ad un altra.” Suonò come una sorta di moderno “diritto all’autodeterminazione” dei popoli, rimpolpato, almeno nella retorica, di un sentimento di apertura e di fiducia che finalmente segnava il passo rispetto alla paura irrazionale nei confronti dell’islamismo radicale.
Non si può non rileggere tutto questo alla luce dei fatti odierni. Cominciamo dall’Egitto. La posizione della Casa Bianca nei confronti delle rivolte egiziane fu equivoca fin dall’inizio: incagliata tra la necessità di dover sostenere le volontà democratiche della piazza, e quella di non poter rinunciare ad un regime – seppur reo – alleato, galleggiò nell’etere della diplomazia, alimentando l’incertezza. Emblematiche le parole del Presidente che esortò Mubarak a trasformare “un momento di instabilità” in “un momento di promessa”. Salvo poi dichiarare che “gli Stati Uniti continueranno a sostenere i diritti del popolo egiziano”.
Dopo un’ulteriore settimana di proteste e scontri, Washington corresse il tiro, intimando a Mubarak di abbandonare il potere, resuscitando un po’ di quella retorica Carteriana che animò il discorso del 2009. Oggi, nel giorno in cui il potere passa dalle mani di Mubarak a quelle del Consiglio Supremo delle Forze Armate, Obama ritrova nelle vicende egiziane “lo spirito di Martin Luther King”, riconciliandosi finalmente in toto con l’eloquenza smarrita. Tuttavia la crisi egiziana si è risolta, come ha giustamente detto sul Corriere di Domenica Sergio Romano, in un golpe militare, che tutto pare tranne che il preludio ad una transizione democratica. La politica indecisa ed intermittente della Casa Bianca, troppo impegnata a saldare la sua retorica imbelle e utopica con la realtà, non è stata in grado né di difendere la stabilità di un’area calda, né di sancire l’inizio di una transizione democratica.
Laddove, nel mondo, l’attenzione e la pressione mediatica non hanno obbligato Obama ai suoi stessi proclami, le scelte e la prassi di Washington sono state di ben altro piglio. La retorica liberal esibita a partire dal 2006 per denunciare i tribunali militari, la detenzione preventiva, il carcere di Guantanamo, il Patrioct Act e la guerra in Iraq è stata da tempo abbandonata a fronte di una prosecuzione e spesso di un rafforzamento dei canoni di Bush. Mentre sulle finestre di mezza Europa si ammainavano le bandiere arcobaleno, il Ministro degli Esteri Clinton annunciava l’aumento dei contingenti in Afghanistan, il Dipartimento della Difesa ordinava i bombardamenti della regione del Waziristan dove – citando Victor Davis Hanson – “l’America ha ucciso con i Predator un numero di uomini pari a quello delle persone uccise nei cinque anni della presidenza Bush.”
Oggi il Medioriente è disorientato: tra alleati abbandonati e nemici riabilitati, tra mani tese e pugni chiusi. Sospeso tra ideali e realtà. Anche l’Europa appare ingolfata e confusa: appena finito di riammainare le bandiere della pace è costretta a rendersi conto che, come dice l’Economist “ ha fatto molto di più Bush per la democrazia in medio oriente di quanto ha fatto Obama”.