Durban 2, il nemico non è il razzismo ma la libertà di espressione
18 Aprile 2009
Perché mai si dovrebbe disertare una conferenza Onu che ha il nobile intento di sradicare la discriminazione e la xenofobia? L’Italia è stata la prima nazione europea a chiamarsi fuori dalla conferenza contro il razzismo di Ginevra e, stando alle dichiarazioni del ministro degli Esteri, Franco Frattini, non dovrebbe cambiare rotta. Israele è stata la prima nazione nel mondo a denunciarne il carattere tendenzioso e a disertare l’evento. Stati Uniti e Canada si sono ritirati subito dopo. La Germania e l’Olanda potrebbero non partecipare ai lavori che iniziano lunedì prossimo.
Questi Stati democratici e liberali sono improvvisamente diventati tutti razzisti? Tutto sommato, leggendo l’ultima bozza della Dichiarazione alla base della conferenza (presentata mercoledì scorso dopo numerose modifiche), non si trova altro che il normale insieme di argomenti contro il razzismo e la discriminazione. Ma non è per razzismo che così tanti governi democratici hanno deciso di non partecipare all’evento. La conferenza di Ginevra, infatti, si ripromette di completare e ampliare i lavori della conferenza di Durban (non a caso l’evento di Ginevra è stato ribattezzato Durban 2) dell’agosto 2001. Durban si risolse in una gigantesca kermesse anti-israeliana, in cui fu chiesto di ripristinare la risoluzione Onu del 1975 che equiparava il sionismo al razzismo. Nella dichiarazione finale delle Ong del 2001 si leggeva chiaramente questo obiettivo: “Il popolo palestinese ha diritto di resistere all’occupazione con ogni mezzo nei limiti della legge internazionale fino al raggiungimento dell’autodeterminazione e alla fine del sistema razzista israeliano, compresa la sua forma di apartheid”.
Riguardo allo Stato ebraico, si legge nel paragrafo successivo: “continue violazioni della convenzione di Ginevra, atti di genocidio e di pulizia etnica costituiscono la forma di apartheid praticata da Israele. Un aspetto rilevante di questo sistema razzista israeliano è la negazione del diritto al rientro dei profughi palestinesi, sancito dalla legge internazionale”. Non è un caso che la conferenza di Durban, nel 2001, divenne un linciaggio generale contro le delegazioni israeliane ed ebraiche. I continui riferimenti all’apartheid nella terra della segregazione incitarono l’odio delle delegazioni internazionali, e dell’opinione pubblica locale contro i gruppi che ancora osavano sventolare la stella di David. Joelle Fiss, attivista belga degli studenti ebrei europei, riporta chiaramente nel suo “Diario da Durban” numerosi episodi di violenza verbale e fisica contro le delegazioni ebraiche, più la diffusione di libelli antisemiti distribuiti dalle organizzazioni non governative arabe e islamiche di cui esiste ampia documentazione. In un volantino della comunità musulmana sudafricana, divenuto ormai celebre, Hitler si chiede “E se avessi vinto?” e la risposta, consolante per tutto il mondo arabo è: “Oggi Israele non esisterebbe e non ci sarebbe il bagno di sangue palestinese”. La testimonianza di Joelle Fiss rivela tutto lo sconcerto di chi, convinto di aver aderito a un evento mondiale contro il razzismo, si è trovato improvvisamente “in compagnia” di organizzazioni islamiche radicali come Hamas e Hezbollah, di movimenti jihadisti vicini a Bin Laden, di regimi dittatoriali pronti a chiedere l’annientamento di un intero popolo sulle orme di Hitler.
Il rischio che la conferenza di Ginevra diventi la replica di quello scandalo è molto forte. Già da oggi, a Ginevra sono iniziati i lavori di una conferenza del “Forum della Società Civile, la “Israel Review Conference”, il cui titolo è già un pamphlet anti-sionista: “United Against Apartheid, Colonialism and Occupation: Dignity & Justice for the Palestinian People” (Uniti contro l’apartheid, il colonialismo e l’occupazione: dignità e giustizia per il popolo palestinese). I sintomi di una nuova kermesse anti-sionista ci sono tutti, a partire dalla presenza, in qualità di vicepresidente, di Mahmoud Ahmadinejad. Proprio il presidente iraniano che chiede la distruzione di Israele, nega l’Olocausto e discrimina sistematicamente le donne e le minoranze religiose nel suo Paese, sarà sul podio in una conferenza Onu contro il razzismo. Una conferenza il cui comitato preparatore è stato guidato dalla Libia: una dittatura che si è macchiata di crimini contro gli immigrati neri provenienti da tutta l’Africa, brutalmente deportati nel Sahara o lasciati linciare in numerosi pogrom nelle città libiche. Un evento, quello di Ginevra, finanziato anche dall’Arabia Saudita, il regno integralista musulmano che addirittura separa le autostrade, non permettendo ai non musulmani di avvicinarsi ai luoghi santi della Mecca e di Medina. Lo stesso regno in cui le donne non possono neppure uscire di casa senza il consenso di un maschio della loro famiglia, non possono guidare un’automobile, hanno la metà dei diritti degli uomini quando sono di fronte a un giudice.
Nelle conferenze regionali preparatorie di Durban 2, l’Organizzazione della Conferenza Islamica ha chiesto di limitare la libertà di espressione, con una nuova legislazione internazionale, al fine di rispettare l’identità religiosa. E’ una richiesta che mina un diritto fondamentale riconosciuto dalla Dichiarazione Universale e che ha provocato la reazione di un’ottantina di Ong occidentali (fra cui il Partito Radicale Transnazionale e UnWatch, l’organizzazione che guida la “resistenza” contro Durban 2), ma che rischia ancora di condizionare i lavori, vista la presenza massiccia di regimi islamici ai lavori di Ginevra. Il Pakistan propone addirittura di rendere il “vilipendio alla religione” un crimine contro l’umanità.
Questi sono solo alcuni dei rischi che si correrebbero se si decidesse di legittimare la conferenza di Ginevra. Il timore espresso dai Paesi scettici o assenti, Italia compresa, è quello di un “dirottamento” della causa antirazzista. In realtà, a ben vedere, leggendo attentamente le numerose bozze di Dichiarazione che si sono succedute in questi mesi, il “dirottamento” è insito nello stesso concetto teorico dell’antirazzismo. La Dichiarazione di Durban e il Programma di Azione (che viene ribadito e promosso anche dalla conferenza di Ginevra) si basano tutti sul principio della “affirmative action”, l’azione del governo volta a rimuovere le barriere sociali e culturali giudicate discriminatorie nei confronti di una minoranza. Già così si è fuori dal concetto classico di antirazzismo, basato sull’eguaglianza dei diritti individuali e sulla rimozione delle leggi statali discriminatorie: nel momento in cui lo Stato (Stato nazionale o organismo internazionale) interviene attivamente per tentare di garantire pari dignità ad ogni cultura, concedendo nuovi diritti all’uno o all’altro gruppo, siamo in presenza di un vero e proprio razzismo alla rovescia. Ogni gruppo sarà sicuramente indotto a chiedere e rivendicare maggiori diritti per sé, anche se a danno di altri. Dopodiché è solo una questione di gusti: ci sarà sempre chi, nel nome della tutela della dignità del proprio gruppo etnico o religioso, chiederà la soppressione della libertà di espressione, chi la soppressione della libertà di culto e chi, in modo più radicale, la soppressione di un intero Stato giudicato come “un sistema razzista”.