E’ coi rabbini che contestano il Papa che il dialogo torna indietro di 50 anni

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E’ coi rabbini che contestano il Papa che il dialogo torna indietro di 50 anni

15 Gennaio 2009

La decisione dell’assemblea dei Rabbini d’Italia di non partecipare alla giornata dell’ebraismo il prossimo 17 febbraio non sembra solidamente giustificata. Le dichiarazioni del rabbino capo di Venezia, Enrico Elia Richetti, che in articolo sulla rivista missionaria “Popoli”, ha motivato quella scelta va rispettata ma non sembra pienamente convincente. L’una e l’altra presa di posizione sono quantomeno eccessive, ossia sproporzionate rispetto al fondamento che dovrebbe sostenerle. 

Tra le motivazioni si fa prima di tutto riferimento al ripristino della messa precedente alla riforma di Giovanni XXIII che contiene la preghiera per la conversione degli ebrei. Si capisce come nell’attuale clima nei rapporti tra le religioni una simile preghiera possa essere intesa come arroganza. Ma è veramente così? “Se io ritengo, sia pure in chiave escatologica, che il mio vicino debba diventare come me per essere degno di salvezza, non rispetto la sua identità”, afferma il rabbino Richetti. Ma il problema è proprio questo: il cristiano non vuole che l’ebreo diventi come lui, ma come Cristo. Egli prega che possa accogliere la grazia di Cristo in cui tutte le identità vengono confermate e sublimate: quella del singolo cristiano e quella dell’ebreo. Non c’è colonialismo, ma l’augurio che i “fratelli” maggiori, come Giovanni Paolo II chiamò gli ebrei e come Ratzinger ha confermato, con i quali i cristiani hanno così tanto da condividere, possano aprirsi ad una pienezza che i cristiani ritengono di aver conosciuto. Perché quella preghiera non può essere vista come segno di predilezione, di riconoscenza, di primogenitura?

C’è poi la prefazione che Benedetto XVI ha scritto al libro di Marcello Pera, con la frase imputata “un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile”. Ma il papa subito dopo precisa: “urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo”. Una prova di un dialogo di questo tipo? Nel libro “Gesù di Nazaret” il papa conduce un grandioso dialogo con Jakob Neusner, rabbino e grande teologo ebreo di New York. Neusner si è misurato con le conseguenze che la scelta di Gesù come il Messia avrebbe comportato e non si è sentito di reggerle. Cosa che non ha comportato nessuna mancanza di rispetto o sottostima da parte del papa, ma anzi, al contrario, egli dice che il pensiero di questo ebreo lo ha profondamente colpito e interpellato, in quanto gli ha rivelato le conseguenze culturali che l’accettazione di Cristo comporta. Come mai, ora, questo papa del dialogo viene accusato del contrario?

Se poi si va a riprendere tutto il pensiero teologico di Joseph Ratzinger ci si imbatte nella famosa tesi secondo cui si dà una convergenza di notevolissima importanza – importanza addirittura provvidenziale – tra il cristianesimo, che crede in Dio come Logos incarnato, da un lato e la filosofia greca e la religione ebraica dall’altro. Se si legge Isaia, per esempio, si vede benissimo la lotta contro la religione come mito: la stessa visione della religione come irrazionale, superstiziosa e arbitraria contro cui combatteva anche Socrate. Il cristianesimo non solo vede nella fede ebraica la propria storia passata e negli ebrei i propri fratelli maggiori, ma si sente legato a loro da un debito di grande riconoscenza: il popolo ebraico per primo ha indicato la via verso l’Unico Dio e ha permesso agli uomini di liberarsi dagli déi. L’ebraismo è stato un grande fatto di libertà. Incompiuta, certo, perché certamente nessuno chiederà al cristiano di rinunciare a Cristo, ma un fatto di libertà.

A mia memoria, poi, non credo che si amai capitato che Benedetto XVI abbia fatto un viaggio importante e non abbia incontrato – a Colonia come a New York, a Regensburg come a Parigi – la comunità ebraica, parlando spesso anche dentro la sinagoga.

Non credo che la decisione dei rabbini italiani sia condizionata direttamente dalle vicende belliche a Gaza, né dalle dichiarazioni non sempre ben soppesate di qualche altro prelato della curia romana. E’ però possibile che si sia fatta strada nei retroterra delle menti l’idea di una certa ostilità della Chiesa cattolica verso Israele. Molti hanno osservato la mancanza di condanne al lancio di missili da parte di Hamas, oppure di aver usato in modo improprio l’argomento della sproporzione della reazione israeliana da parte di ambienti cattolici. Ma sarebbe molto facile stilare un lungo elenco di condanne del terrorismo da parte del papa, compresa la condanna di chi si fa scudo della popolazione civile, come sta ora facendo Hamas e come fece Hezbollah nel 2006.

Il 13 aprile del 1986 Giovanni Paolo II andò in visita alla sinagoga di Roma. Questo molti lo ricordano. Perché non tutti ricordano che venti anni dopo anche Benedetto XVI ha fatto lo stesso significativo gesto? Dando la notizia dell’evento il rabbino capo di Roma Di Segni dichiarava allora: «Noi sappiamo quale ruolo determinante abbia avuto, negli anni del precedente pontificato, il suo pensiero [di Ratzinger ndr], come guida e solido sostegno teologico dei più importanti momenti di definizione della dottrina. Per questo motivo, fin dai primi momenti del nuovo pontificato, è stata forte la convinzione che non solo non ci sarebbero stati passi indietro nel cammino intrapreso, ma che la strada segnata sarebbe continuata linearmente».

Stefano Fontana