E’ difficile che la Tunisia contagi il Maghreb ed esporti la sua democrazia

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E’ difficile che la Tunisia contagi il Maghreb ed esporti la sua democrazia

20 Gennaio 2011

Ci sarà il contagio nel Maghreb? La rivoluzione dei gelsomini sta innescando o può innescare rivolte simili in Libia, Algeria e Marocco e anche in Egitto? E’ questa la questione focale che si pone in queste ore, dando per scontato –ma scontato non è- che l’esercito tunisino continui ad essere il saggio baricentro di una transizione verso la democrazia irta di difficoltà, ma alla fine vincente. La risposta è rischiosa, perché la dinamica degli avvenimenti innescati dal rogo del 17 dicembre scorso del giovane di 26 anni Mohammed Bouaziz che si diede fuoco per protestare contro l’abuso del sequestro della sua licenza di ambulante è assolutamente originale, inaspettata, inedita.

Sperando di sbagliare, la risposta che si può ricavare dall’analisi dei “fondamentali” è negativa. Non certo perché si possono escludere –anzi- fiammate di piazza, anche gravissime, para-insurrezionali, in Algeria e in Marocco. Tutt’altro. Ma perché in nessun altro paese arabo, e in particolare nel Nord Africa, si intravede la possibilità che queste possibili fiammate di rabbia popolare possano trovare una sponda non solo in ampi strati, anche elevati, della società, ma anche nelle forze armate. La vicenda tunisina, imprevista, sbalorditiva nella sua rapidità e forza, ruota infatti tutta su una alleanza che nel giro di pochi giorni si è creata tra queste complesse componenti –anche di vertice della società tunisina- e che ha obbligato Ban Ali alla sua rovinosa fuga. Il tutto, si badi bene, senza che vi fosse assolutamente non solo una leadership chiara e forte, ma addirittura forze politiche o sociali d’opposizione che tessessero queste alleanze, questi rapporti.

Fatte le debite differenze, lo schema della rivolta tunisina è molto simile a quello della rivoluzione iraniana del 1979: diseredati, ceto medio, l’enorme strato sociale legato al bazaar, professionisti e anche spezzoni della gerarchia del regime e dell’esercito, a fare fronte unito contro un regime dispotico e corrotto, con i militari che al momento dovuto si astengono dall’intervenire (tanto che “l’insurrezione” si risolse in uno scontro durato poche ore tra la Guardia Pretoriana dello scià e gli avieri di Farahband, con non più di 500 morti –quasi tutti militari- nell’arco di 48 ore). Ma in Iran non solo c’era -e faceva presa- il carisma di Khomeini, ma anche l’immensa rete di moschee e di mullah che dopo il 1963 l’Imam aveva steso e fatto crescere in migliaia di moschee in tutto il paese: il Partito di Dio.

Nulla di tutto ciò –quanto a leadership e rete organizzativa- in Tunisia, la dove la stessa Ugt, il sindacato unitario, ha sì un forte radicamento sociale (ma solo in settori industriali tutto sommato marginali in un paese che ha il 20% del Pil prodotto dal turismo), ma non esprime assolutamente leadership politica.

Il fatto è che questa inaspettata rivoluzione dei gelsomini si è impiantata nell’unica repubblica araba che il genio politico di Habib Bourghiba ha tenuto immune –letteralmente armi in pugno- dal nasserismo e dal panarabismo. Tutte le repubbliche arabe, incluso il Libano, incluso persino lo Yemen, e poi Iraq, Siria, Egitto, Libia Algeria, Sudan e anche Mauritania, sono invece cresciute –o sono state condizionate- dentro e dal modello sociale nasseriano. Un modello in cui il panarabismo era un ideologia confusa che si reggeva su due assi. Innanzitutto il nazionalismo anti israeliano, esasperato quanto impotente, gestito politicamente in prima persona da un Esercito e da generali che letteralmente si mangiavano e si mangiano larga parte del budget statale e si dividono larga parte delle cariche direttive (anche nell’industria statale, secondo il modello egiziano -e algerino- della « Société militaire » definito da Anouar Abdel Malek nel 1962). Nazionalismo antisraeliano, basato su un forte islamismo, che lascia intatta la presa sociale delle moschee, che ha sempre uniformato la società, e quindi la famiglia, sulla più rigida sharia (“fonte della legislazione in molte repubbliche), fatta salva la persecuzione dei fondamentalisti. Nulla di più falso e errato quanto l’illusione che quelli nasseriani –o baathisti- fossero regimi “laici”: “Il nazionalismo arabo è il corpo, ma l’Islam è l’anima”, spiegava Michel Aflaq, ideologo e fondatore del Baath.

Diversa, ma identica nell’essenza, la struttura del regime libico. Il modello nasseriano non ha solo prodotto disastri sul piano economico e dello sviluppo (il più grave: il fallimento economico del’Algeria nel 1990), ma ha anche impedito e compresso lo sviluppo di una società di quadri e professionisti forti della propria professionalità e non della vicinanza alla gerarchia militar-politica.

Bourghiba è stato invece l’unico, grande, avversario del nasserismo in terra araba. Lo è stato nei confronti dell’Egitto e anche della stessa Algeria: dal 1956 al 1961 ha sempre appoggiato la resistenza antifrancese, ma non certo la ledership del Fln, bensì quei settori moderati, poi spazzati via e uccisi dal Fln, che avevano in Ferrat Abbas il loro leader. Da questa avversione strategica al nasserismo e dal suo rifiuto di dare senso al proprio Stato con l’ossessione anti israeliana (nel marzo del 1965, per evitare quello che poi sarebbe stato il disastro della Guerra dei 6 giorni del 1967, Bourghiba propose addirittura ai paesi arabi di riconoscere il diritto all’esistenza di Israele) è discesa anche una collocazione assolutamente diversificata delle forze armate tunisine. Tenute assolutamente lontane dalla gestione del potere (lo stesso regime di Ben Ali si reggeva sui servizi segreti, sulla Guardia Presidenziale e sulle forse di polizia) e fortemente impegnate –spesso “col colpo in canna e senza sicura”- vuoi alla frontiera con la Libia, vuoi a quella con l’Algeria. Frontiere “calde” (Gheddafi nel 1988 promosse addirittura una rivolta di commandos a Gafsa), tanto roventi dall’avere sempre impedito l’altro grande sogno di Bourghiba: quell’ Uma (Union du Maghreb Arabe), che avrebbe dovuto collocare l’economia tunisina nel contesto regionale, fruendo dell’immenso apporto che l’integrazione con l’economia algerina –soprattutto- avrebbe potuto portare con sé.

Per avere un’idea di come fossero e siano tuttora tesi i rapporti con la stessa Algeria, basti pensare che sino all’estate del 2010 i lavoratori algerini potevano fruire di permessi di lavoro di soli tre mesi, rinnovabili ogni volta: misura volta a impedire la formazione di una “quinta colonna” di immigrati algerini in Tunisia. Dunque, forze armate ed esercito tunisini caratterizzati da una pura e semplice “missione nazionale”, senza nessuna compromissione con la direzione dello stato e tantomeno dell’economia (pur condividendo, ovviamente, privilegi e anche le stesse“mazzette” elargite dalla nomenclatura di regime).

Il centro del modello di società fondato da Bourghiba –quello che ha prodotto gli interpreti della rivoluzione dei gelsomini- è stata però la famiglia. Straordinario, unico esempio in tutto il contesto delle società islamiche. Grazie al Codice entrato in vigore nel 1956, letteralmente all’indomani dell’indipendenza, per un sessantennio le famiglie tunisine si sono sviluppate e sono cresciute incentrate su una posizione della donna unica nel contesto islamico. La proibizione della poligamia e del ripudio maschile, il diritto paritario della donna nel richiedere il divorzio e dell’ottenere l’affidamento dei figli hanno formato ormai la terza generazione di famiglie sottratte alle violenze e alle sopraffazione della legge shariatica che umilia e rende sottomessa la donna in tutte le altre società islamiche (solo il Marocco ha tentato una riforma del genere con la Muddawana, ma solo nel 2005). Il tutto con uno straordinario investimento nell’istruzione che fa sì che a oggi la percentuale di quindicenni analfabeti in Tunisia sia la più bassa tra tutti i paesi arabi (imponente nella rivoluzione dei gelsomini è stato l’apporto degli universitari e dei laureati disoccupati e del loro nuovo strumento di comunicazione:Internet).

Tutti gli altri paesi arabi, inclusa la “laica” Algeria (ed escluso il solo Marocco, come detto, e il nuovo Iraq), hanno invece sviluppato un processo inverso. Mano a mano che si allontanava la data dell’indipendenza, più veniva abbandonata la tutela paritaria delle donne garantita (almeno in principio) dai Codici europei e ha preso spazio il peggio della legislazione shariatica. Processo che si è accelerato enormemente negli anni ‘80 e ’90. Questo ha prodotto e produce società il cui nucleo fondamentale, la famiglia, è da decenni caratterizzato da un rapporto di sopraffazione e umiliazione, quando non di violenza quantomeno psichica, dell’uomo sulla donna.

La letteratura araba contemporanea (eccezionale Palais Yacoubian dell’egiziano Ala al Aswani) rispecchia questa violenza di matrice jihadista, come anche –qui la differenza con la Tunisia è marcatissima- il volto di una èlite sempre e solo parafeudale e tribale (aspetto che ovviamente è ancora rintracciabile in Tunisia). Pochi, esili, deboli, isolati sono gli strati sociali, i ceti medio alti entrati culturalmente in pieno nella modernità, al di fuori della Tunisia.

Questa è la grande differenza. Queste sono le ragioni che rendono il contagio tunisino ben difficile, se non impossibile. Nella speranza, naturalmente, di aver sbagliato tutta l’analisi, come non raramente ci accade.