E’ grazie a Petraeus che gli Usa stanno vincendo

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E’ grazie a Petraeus che gli Usa stanno vincendo

E’ grazie a Petraeus che gli Usa stanno vincendo

21 Marzo 2008

Arrivati al quinto
anniversario della guerra in Iraq, la domanda che sorge spontanea non può
essere un’altra: ma che sta succedendo? Gli americani stavolta vinceranno o
stanno andando incontro a un altro Vietnam? Le pagine dei giornali di tutto il
mondo si riempiono di analisi, dati, sondaggi. Il conflitto iracheno si trasforma
in un gigantesco specchio che riflette qualsiasi realtà o desiderio. Allora non
rimane che aggrapparci a pochi e sicuri fatti. Solo la storia, ad anni di
distanza, potrà rispondere alla domanda centrale: è servito morire per Danzica?
Fino ad oggi sono 4 mila i soldati americani caduti, per non parlare delle
decine di migliaia di civili iracheni.

Quando si ragiona di guerra,
le questioni da affrontare sono di solito due. Si tratta di una guerra giusta?
E, in secondo luogo, la strategia funziona? Sembrerà strano, ma le democrazie
tendono a confondere i due piani. Una guerra risulta ingiusta e sbagliata non
in base alle motivazioni, ma rispetto alle difficoltà di vincere. Tanto più il
nemico si dimostra capace di resistere, quanto più la pubblica opinione di una
potenza democratica pensa che sia stata una pessima idea imbarcarsi in quel
conflitto. Il motivo è presto detto: nelle guerre preventive contemporanee non
si combatte per legittima difesa, per difendere immediatamente il suolo patrio.
Si muore e si uccide lontano da casa, per sconfiggere guerriglieri esotici o idre
senza teste, il terrorismo internazionale, al Qaida, il fondamentalismo
fascista islamico. Per comprendere lo iato, la distanza siderale tra i rimasti
a casa e i combattenti, ci voleva l’arte pura di quel genio di Coppola dove in Apocalypse Now, al suono di Suzie Q dei Credence Clearwater Revival (ma era dei Rolling Stones), i marines cantano e applaudono sotto una pioggia di
bombe e traccianti. Che cosa rende meglio dello straniamento l’uso della
musica, dello stesso rock, a casa ascoltato con gli amici bevendo e fumando e
al fronte, accompagnamento al sangue?

Non rimane altro che lasciare
la riflessione sulla guerra giusta ad altri momenti e costringerci a pensare a
come, ai modi in cui il conflitto sta andando. Non fosse altro che la stessa
identica domanda iniziale è lecito porla per lo meno in un’altra situazione,
questa sì con tutti i crismi della correttezza liberal: mozione ONU, missione Nato. Ecco l’Afghanistan, dove, a
ben sette anni dall’inizio dei combattimenti, non cinque come l’Iraq, la
coalizione occidentale non riesce a venir a capo della micidiale guerriglia dei
Talebani appoggiati dai rimasugli di Al Qaida. Eppure, insieme all’unica super
potenza mondiale sono impegnate, tra gli altri paesi, due grandi nazioni dalle
forti tradizioni guerriere come Regno Unito e Germania.  

Toglie qualcosa alla
legittimità il fatto di non riuscire a vincere in tempi brevi? Non credo, significa
soltanto che bisogna aggiustare il tiro, correggere la rotta. Le guerre non
sono qualcosa di statico, le mosse di un contendente si devono adattare a
quelle dell’avversario che impara, corregge e regola il tiro. Inoltre, la
guerra che gli americani stanno combattendo in Iraq non è la stessa guerra con
cui inizialmente è stato sconfitto l’esercito di Saddam Hussein.

Quindi le prime risposte.
L’Iraq non è il Vietnam. Per un numero impressionante di motivi, ormai noti.
Non c’è la guerra fredda, nessuna potenza supporta con tutti i mezzi né
condivide l’ideologia dei variegati terroristi islamici che non incarnano
nessun ideale di libertà per l’opinione pubblica di mezzo mondo. L’Iraq non ha
la jungla, è un deserto pieno di pozzi di petrolio, non di risaie, e gli
iracheni, a differenza dei vietnamiti, hanno perso negli ultimi venti anni
tutte le guerre.

Ma ora a queste
constatazioni, se ne sono aggiunte altre completamente nuove e destinate a
segnare una svolta. Gli Stati Uniti per la prima volta stanno vincendo una
guerra moderna e difficile di contro-insorgenza. Non è come il Vietnam. Lì un
immenso esercito uscito fuori dalla guerra di Corea, con i generali addestrati
ad affrontare i sovietici con migliaia di carri armati e bombardieri, si trovò
impelagato nel pantano della guerriglia. La risposta fu sempre più rabbiosa e
ottusa. La logica spietata della guerra assoluta, dello scontro in bianco e in
nero si rivelò perdente. Ogni bomba creava più vietcong di quanti ne
ammazzasse. Il napalm si rivelò essere il miglior strumento di arruolamento per
i combattenti comunisti. La televisione, le scene dei bambini piangenti e
urlanti sotto la pioggia di distruzione, portarono gli Stati Uniti sul banco
degli accusati senza nemmeno uno scalcinato difensore d’ufficio. A niente
valsero i consigli degli ufficiali inglesi e australiani, di chi aveva passato
tutta la vita a combattere guerriglie in ogni teatro e su ogni tipo di terreno.
Sordi gli americani, forti della loro supremazia tecnologica e del pensiero
strategico tutto centrato sulla distruzione totale; incapaci i governi
sudvietnamiti di comprendere le ragioni che muovevano i fratelli del nord diventati
nemici.

Ora le cose stanno in modo
diverso. Dall’Iraq, dopo l’imbecillità delle sadiche sevizie di una banda di
matricole nel carcere di Abu Ghraib, nessuna notizia di torture, bombardamenti
selvaggi. La strategia del generale Petraeus sta funzionando. Al centro non c’è
la distruzione totale del nemico, il suo annichilimento. La sicurezza dei
civili viene al primo posto. La conquista dei cuori e delle menti della
popolazione è lo scopo esplicito del surge.
I risultati sono lì a conferma: crollati gli attentati e i morti, nonostante le
terribili notizie di questi giorni. Ma la svolta sul terreno era stata
preparata meticolosamente e pagata a caro prezzo. La macchina bellica americana
è un elefante lento nell’apprendere. Da anni, voci isolate prima e schiere di
strateghi poi, avevano messo in guardia dai rischi delle nuove e antiche guerre
asimmetriche. L’avvento del network-centric
warfare
, con la prima guerra del Golfo del gennaio 1991 (un video game
durato appena quaranta giorni), lì smenti solo apparentemente. Seguirono le
battute sprezzanti degli stati maggiori del Pentagono: agli americani il
compito di vincere le guerre, agli alleati quello di pulire i vetri. Anche la
guerra in Afghanistan sembrava fatta apposta. Niente di meglio che truppe
speciali a cavallo, con pc e telefoni satellitari, a guidare i bombardamenti
dei droni e alleanze con i mujaheddin locali, senza sporcarsi troppo le mani. Guerre
sempre più tecnologiche fatte di microchip, bombe intelligenti, milioni di
dollari, pochi soldati e pochi morti. Era la quadratura del cerchio: l’impero
democratico aveva scoperto il modo di gestire le crisi internazionali in poco
tempo e in modo chirurgico. Alla fine il sogno si è infranto, l’illusione è
crollata in modo definitivo assieme alla cupola d’oro della moschea di Askarya
nella città santa di Samarra, il 22 febbraio 2006, quando un ordigno preparato
da Al Qaida esplose mentre i soldati americani se ne stavano chiusi nei loro
fortini.

E con imperdonabile ritardo,
l’unica super potenza rimasta ha iniziato a reagire. Via il segretario alla Difesa
Donald Rumsfeld, l’artefice della netwar,
della guerra leggera, il teorico del moderno blitzkrieg, sostituito nel dicembre del 2006 da Robert Gates, una
vita nello spionaggio. Via nel dicembre del 2007 il comandante delle truppe in
Iraq George Casey, al suo posto David Petraeus. Con le dimissioni dell’ammiraglio
William Fallon, comandante delle forze Usa in Medio Oriente, è andato via anche l’ultimo dinosauro rimasto a
ostacolare il nuovo corso. Le svolte politiche però non bastano e spesso
nemmeno i cambi di uomini sono sufficienti. Ecco la nuova dottrina condensata
nell’ormai celebre “Counterinsurgency
Field Manual
3-24”.
La mano di Petraeus è evidente, il generale professore con un master in
relazioni internazionali e una tesi sulla lezione del Vietnam; è anche chiaro
il lavoro di squadra con un gruppo straordinario di giovani ufficiali a partire
dagli ormai celebri David Kilcullen e John Nagel. L’esercito americano ha finalmente
interiorizzato la
conoscenza. Petraeus è riuscito a istituzionalizzare il
processo di apprendimento cui l’apparato si era dimostrato impermeabile (la
conclusione è amara: gli Stati Uniti devono essere preparati a combattere ogni
tipo di guerra, tradizionale contro potenze ostili, di contro-insorgenza e
impegnarsi nel nation building).

Il resto è noto, ormai quasi
mito. La rivolta delle tribù sunnite nella provincia di Anbar, la creazione
delle milizie di difesa sunnite i cosiddetti “figli dell’Iraq” (sul libro paga
USA), la separazione tra i quartieri sciiti e sunniti di Bagdhad secondo linee etniche,
il controllo del territorio, l’addestramento dell’esercito iracheno, il
coordinamento dell’azione tra civili e militari. Così è stata interrotta la
spirale della guerra civile. Insomma, la lezione dell’Algeria dei Galula, della
Malesia dei Thompson, del Vietnam, di Israele sono state apprese in modo
perfetto. Conquistare la popolazione, conquistarne il consenso, separarla dal nemico,
garantirne la
sicurezza. Controllare il territorio, capire che non è solo questione
di geografia, ma che il terreno è fatto di popolo, di costumi, tradizioni e
norme non dette, molto taciute in verità, di comportamento. Capire che il
confine tra bene e male non è una linea retta. Che il grigio è il colore della
realtà, della vita. Altro che esportare la democrazia, indire elezioni! Banalità
si dirà. Qualsiasi nostro maresciallo dei carabinieri sa che queste conoscenze
e strategie sono le stesse necessarie ad affrontare la guerra alla mafia, alla
delinquenza organizzata nel nostro sud, ancora in qualche area fortemente
familistica, strutturata in clan, fondamentalmente “amorale”, per riprendere
l’espressione del sociologo Edward Banfield. Ma è una verità sconvolgente per
%0Achi, come gli americani, ha in testa un mondo a due colori, per uno stato
maggiore che concepisce un unico criterio di vittoria addirittura risalente a Jomini,
la distruzione assoluta del nemico. O vittoria o sconfitta, nonostante dalla
fine della guerra fredda gli Stati Uniti siano stati impegnati 88 volte nelle
kiplinghiane “savage wars of peace” o
small wars”, dalla Somalia ai
Balcani alla Sierra Leone.

Non è questa però la
strategia giusta per il nuovo nemico. O meglio, i nemici. Perché davanti a
tutti è la minaccia globale, l’insorgenza planetaria dei sunniti di al Qaida,
internazionale del terrore senza nazione, folli irresponsabili, giacobini
assoluti, veri eredi del niente terroristico. Esempio dove lo strumento, la
macelleria, ha il sopravvento sulle motivazioni, sulla causa. Creazione post
moderna malgrado la loro volontà. Network ideologico ormai in franchising,
disposto ad arruolare ogni psicopatico musulmano, abile ad insediarsi in ogni
punto debole del così detto “arco di instabilità”. Dall’Afghanistan al
Waziristan pakistano, dall’Iraq post Saddam al Sudan, dalla Somalia e al Libano.

Accanto ad essi, ecco prendere
sempre più piede l’altra sfida mortale all’Occidente, il piano ben congegnato,
questo sì radicato, della rivoluzione sciita – chiamiamo le cose per il loro nome.
Iran in primo luogo, e poi gli Hezbollah in Libano e la conquista della sunnita
Hamas a Gaza, l’esercito del Mahdi di Motqada al Sadr  e i rapporti con lo Sciiri in Iraq, il tutto
senza soluzione di continuità. La minaccia così si trasforma, diventa terrorismo,
autobomba, kamikaze, bomba nucleare, esercito rivoluzionario, popolo in armi,
criminalità organizzata, comitato di quartiere, società di mutuo soccorso,
diplomazia. Minacce composite: da quelle a bassa intensità, di attrito, a
quelle nucleari, attraversando i continenti e provenienti da nemici magari in
conflitto tra loro.

Dalla parte del
fondamentalismo rivoluzionario e terrorista vittorie, solo vittorie. Cinque
sopratutto. Iran, 1979: la prima rivoluzione di popolo, religiosa e antimoderna
del Novecento. Afghanistan,1989: sconfitta, dopo dieci anni di terribili
ostilità, della potente, invincibile e crudele Armata Rossa. Libano, 1983: fuga
degli eserciti americano e francese a seguito delle stragi compiute dai primi
kamikaze (nessuno allora prese sul serio le parole dello sceicco sciita Mohammed Yazbek ai miliziani sciiti nella valle della Bekaa: “Gli Stati Uniti,
Israele e il mondo intero devono sapere che noi abbiamo il senso del martirio e
che il nostro slogan diventerà realtà”). Somalia, 1994: la guerriglia somala
animata da al Qaida costringe gli Stati Uniti di Bill Clinton alla ritirata (ricordate
l’abbattimento del Black Hawk e i somali in festa che straziano il cadavere del
pilota americano?). Libano, 2000: ritiro dalle sue postazioni nel sud dell’invitto
esercito israeliano per far posto ad Hezbollah.

Questa è la percezione del
mondo arabo e musulmano: un Occidente in fuga davanti all’onda montante della
rinascita religiosa islamica in armi. A Bush l’indubbio merito di aver risposto
per la prima volta in modo esemplare, di aver fermato questa escalation verso la distruzione. Ora
al Qaida, gli stati che la appoggiano, i paesi che fomentano il terrorismo,
sanno che non possono più scherzare con il fuoco. Il messaggio che è filtrato
nelle strade mediorientali è chiaro: gli Stati Uniti non assisteranno
rassegnati allo scoppio dei kamikaze.

Sui risultati raggiunti dal surge, nessun dubbio. Gli attacchi nella
provincia di Anbar sono scesi dai 300 del 2006 ai 30 degli ultimi mesi; le
morti causate dalla violenza settaria sono diminuite del 50% (ma più dell’80% a
Baghdad); gli attacchi alle forze della coalizione crollati del 90%; adesso
Falluja, il cuore dell’insorgenza sunnita, è controllata solo da 250 soldati
americani rispetto ai 3 mila dell’estate scorsa. Il 55% degli iracheni,
rispetto al 39% di agosto, dichiara che la situazione generale del Paese è
migliorata e ben il 62% afferma che le cose vanno meglio anche sul piano
locale. E l’appoggio dei cittadini americani alla guerra cresce: il 53% degli
americani sono ottimisti sulla possibilità di successo degli Stati Uniti,
mentre nel settembre 2007 erano appena il 42% (dati Pew Center).
 
Eppure qualcosa ancora non
funziona. Una contro-insorgenza ha successo soltanto se la politica è presente
su ogni piano dell’azione, da quello militare, sia operativo che strategico,
fino alla politica vera e propria. Se non si dispone di una soluzione possibile,
a niente valgono i sacrifici di civili e militari. E’ ormai risaputo.
Dall’Algeria al Vietnam, la vittoria sul campo serve a niente se non è
accompagnata da una giusta visione politica. Questa è l’altra grande lezione
della dialettica insorgenza/contro-insorgenza; più di sempre è vera la lezione
di Clausewitz sul rapporto tra guerra e politica. La ripresa dell’iniziativa da
parte degli americani deve essere seguita da passi concreti verso la
pacificazione interna. Non c’è tempo da perdere, lo spazio di manovra che gli
Stati Uniti sono riusciti faticosamente a riguadagnare potrebbe richiudersi. Nelle
parole del generale Raymond Odierno, “il surge
ha provveduto a creare una finestra di opportunità. Ma questa finestra non
rimarrà aperta per sempre… I leader iracheni devono compiere scelte precise per
consolidare le conquiste strategiche acquisite attraverso una politica di
riconciliazione nazionale e i progressi politici” (Heritage Lectures, 13 marzo 2008). 

Il governo iracheno sta
compiendo sforzi notevoli sulla strada della costruzione di un’entità nazionale
rappacificata. Ha varato la legge sull’amnistia (la fine della de-baathificazione),
approvato la legge sulla distribuzione dei proventi della vendita del petrolio,
indetto le elezioni amministrative. Ma per attuare queste misure sono
necessarie ulteriori disposizioni che ad oggi sono ancora lontane dal vedere la
luce. E’ ancora presto, quindi, per affermare, senza timore di essere smentiti,
che il governo iracheno abbia davvero preso il controllo della situazione. Il
successo del surge, ecco il paradosso
di Kilcullen, si potrà misurare solo quando sarà possibile ritirare i soldati
americani dall’Iraq perché a garantire la sicurezza basteranno i soli iracheni.