E’ il male del secolo e si chiama Sarkoberlusconisme
06 Luglio 2008
In occasione del viaggio di Sarkozy a Roma del 3 giugno scorso per partecipare al summit della Fao, «Le Monde» aveva raffigurato due caricature del Presidente francese e di quello del Consiglio italiano intenti ad abbracciarsi. Era l’abbraccio tra «Sarconi e Berluscozy»!
Da alcuni anni una delle accuse più spesso rivolte all’attuale inquilino dell’Eliseo è proprio quella di assomigliare troppo, nell’esercizio del potere così come nella sua incarnazione pubblica, a Silvio Berlusconi. L’antipatia transalpina nei confronti del Cavaliere non è certo una novità, ma questa volta siamo di fronte ad un vero e proprio salto di qualità. La pubblicazione di un pamphlet piuttosto duro nei confronti dei due leaders nasce con l’obiettivo dichiarato di certificare scientificamente l’esistenza del «Sarkoberlusconisme», che nell’attuale congiuntura si presenterebbe come vero e proprio asse portante del conservatorismo europeo.
Che cos’è questo «sarkoberlusconisme», al quale il politologo Pierre Musso, ha dedicato una tagliente requisitoria nel suo ultimo libro?
Ecco pronta la risposta: «si tratta di un neo-liberalismo conservatore adatto all’Europa del Sud latina e cattolica». Quali i punti principali di questo «neo-liberalismo» che, all’interno degli ambienti a forte sensibilità gauchiste come quelli ai quali appartiene Musso, indica una specie di insulto e rappresenta il coacervo di ogni tipo di deriva populista e di capitalismo sfrenato?
Prima di tutto un comune obiettivo: quello di smantellare lo Stato sociale così come concepito nel corso della lunga parentesi postbellica e di sostituirvi uno Stato liberal-liberista fondato sul culto dell’impresa, del lavoro e dell’immagine.
L’economico è, infatti, accanto al sociale, il terreno privilegiato di incontro tra i due protagonisti al governo al di qua e al di là delle Alpi. L’ascesa al potere di Berlusconi e di Sarkozy deve essere inserita, a detta dell’autore, all’interno di un più ampio movimento di «managerializzazione» della politica, successivo alla fine delle ideologie post
Terzo punto di contatto l’utilizzo piuttosto spavaldo e strumentale a fini politici del mezzo televisivo. Dopo aver ricordato i rispettivi «conflitti di interessi», quello ultra noto di Berlusconi e quello di Sarkozy, amico intimo dei proprietari dei colossi televisivi o della carta stampata francesi, Musso cerca di impostare un’analisi che vada oltre i luoghi comuni della «telecrazia». Il successo Berlusconi non può essere ridotto, come per anni e in parte ancora oggi sostiene una parte della sinistra italiana, ai suoi spot elettorali o alla sua campagna sui network nazionali. E la teatralizzazione della politica, peraltro caratteristica valida per descrivere la situazione italiana (e in gran parte anche quella francese) e spiegarne le difficoltà degli ultimi quindici anni, non è sufficiente. Berlusconi e Sarkozy sono dei maghi della televisione e in genere della comunicazione politica innanzitutto perché sono in grado di produrre costantemente notizie. Il loro ruolo fondamentale è quello di essere dei «news makers», facendo così in modo di occupare la scena, spesso indipendentemente dal messaggio che enunciano. Corollario di questa «teatralizzazione» è naturalmente la commistione tra le categorie di pubblico e privato, obiettivamente evidente nel caso di Sarkozy nella fase di separazione dalla seconda moglie Cecilia e in quella di passaggio alla nuova première dame, Carla Bruni.
Fino a questo punto l’analisi di Musso non presenta particolari novità e anzi, come nel caso della mediatizzazione della politica, fa un passo decisamente avanti rispetto alle solite critiche che insistono sulla manipolazione televisiva del suffragio elettorale italiano, non trovando però valide risposte qualora si chieda conto delle vittorie di Romano Prodi nel 1996 e nel 2006, anche queste in pieno «regime televisivo berlusconiano».
Nel momento però in cui si fa più originale l’analisi di Musso scivola pericolosamente verso il sensazionalismo o la riproposizione di luoghi comuni. Il progetto neo-liberale del «Sarkoberlusconisme», dopo aver tramutato lo Stato sociale in Stato liberale (o addirittura in «Stato penitenza»), finirebbe per essere dominato da un agire imprenditoriale fortemente legato al credo religioso cattolico. La religione come collante ideologico del cosiddetto «Sarkoberlusconisme», il lavoro individuale come chiave del successo materiale e veicolo di salvezza eterna, una sorta di «etica cattolica» e spirito del capitalismo del XXI secolo possono funzionare a livello di slogan, ma hanno scarso riscontro nella realtà. Infatti nel contesto italiano la fine del «partito dei cattolici» e della loro conseguente unità polica, unito ad un processo di secolarizzazione giunto a livelli estremi, hanno determinato un’incapacità sempre maggiore della politica di costruire maggioranze coerenti di fronte alle questioni che coinvolgono i temi etici. In Francia poi Sarkozy ha cercato di avviare un percorso di rivalutazione delle radici religiose del Paese, introducendo la sua proposta di laicité positive, ma i risultati sono stati deleteri per la sua popolarità.
Il richiamo alla centralità dell’aspetto religioso nei processi di legittimazione di Berlusconi e Sarkozy appare quindi più una boutade che un reale dato scientifico. Peraltro prendere atto che il Presidente francese e il Presidente del Consiglio italiano, essendo due esponenti di primo piano di formazioni politiche moderate e in vario modo intrecciate con la tradizione democratico-cristiana europea e che dunque possano raccogliere maggiori consensi in fasce di elettorato religiosamente praticanti sembra un’affermazione degna di scarsa nota.
In realtà si tratta di novità solo apparenti per poi giungere alle conclusioni finali, nelle quali l’autore lascia finalmente emergere tutta la sua anima no-global e di contestazione radical-gauchiste. Ecco la definizione finale del «Sarkoberlusconisme»: «una forma originale di contro-rivoluzione liberale in grado di combinare tra loro americanismo, tradizione cattolica romana, neo-managerialismo e neo-telecrazia commerciale, per togliere legittimità allo Stato e per contribuire alla deregulation del politico» (p. 144).
In realtà il vero errore dell’autore (e di molti osservatori italiani e francesi che vedono nei due leader le due facce della stessa medaglia) sembra proprio quello di sottostimare le singole peculiarità di Berlusconi e Sarkozy e i differenti ambiti nei quali si trovano ad operare.
È certamente vero che essi sono due prodotti della crisi politica che ha attraversato l’Europa nel post 1989. Entrambi sono interpreti di una forte carica di novità e di dinamismo. Le affinità si fermano però qui, per procedere è necessario soffermarsi su ogni singola specificità, mostrando le differenze, piuttosto che inventarsi affinità difficilmente dimostrabili.
Si scoprirebbe così da un lato un politico di professione, impegnato sin da giovane nel partito gollista e poi con incarichi di responsabilità istituzionale (sindaco di Neuilly all’età di 28 anni e a 34 deputato all’Assemblée Nationale). Più volte ministro Sarkozy ha poi compreso l’importanza di controllare il partito per garantirsi la candidatura all’Eliseo, conquistato con una campagna elettorale che più politicamente connotata non poteva essere. Sarkozy, insomma, non è certo il prototipo del «manager antipolitico» alla testa della «restaurazione neo-liberale», ma nemmeno quella del «tele-politico» che ne utilizza le armi per depoliticizzare il dibattito pubblico. Egli incarna una rilettura abbastanza radicale del gollismo alla luce delle sfide imposte al suo Paese ad inizio XXI secolo.
Per quanto riguarda Berlusconi l’errore dell’autore pare duplice. Da un lato non sottolinea a sufficienza quanto l’emergere della sua figura politica sia dovuto al crollo del sistema dei partiti del post ’89, al quale hanno contribuito pesantemente le iniziative giudiziarie di alcune procure. Dall’altro non si sofferma a descrivere le mutazioni incorse nella parabola politica di Berlsuconi dal 1993 ad oggi. Il Cavaliere paladino dell’antipolica e dell’assalto a «Roma ladrona» della campagna elettorale del 1994 poco assomiglia a quello del 2001 e ancor meno a quello pacato e rassicurante della campagna elettorale appena conclusasi.
Insomma, nell’ansia di generalizzare, sembrano essersi smarrite le specificità. C’era da attendersi altro se scorrendo le note si scopre che i pochi testi di riferimento sul caso italiano sono quelli di Umberto Eco, Giorgio Bocca e Furio Colombo?
P. Musso, Le Sarkoberlusconisme, Editions de l’Aube, 2008, pp. 171.