E il naufragar m’è dolce nel mondo liquido di Bauman

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E il naufragar m’è dolce nel mondo liquido di Bauman

27 Aprile 2008

Il tema dell’ultimo libro di Zygmunt Bauman è come sempre molto accattivante, largamente sentito e legato all’esperienza quotidiana di tutti noi abitatori dell’estrema modernità; la sua argomentazione di fondo è però squisitamente politica. Iniziamo dal tema accattivante: stavolta si tratta della paura. Leggiamo l’incipit: “Quando, al termine di un lungo periodo di inquietudine, ansia, oscuri presagi, giornate piene di apprensione e notti senza sonno, arriva davvero il momento di affrontare un pericolo temuto, una minaccia reale, che finalmente riusciamo a vedere e a toccare, avvertiamo un senso di sollievo strano, eppure comune e familiare a noi tutti, un’improvvisa iniezione di energia e di coraggio.” Chi di noi non si è trovato una volta o l’altra in uno stato d’animo simile? Come negare che l’ansia, l’insicurezza, la paura, siano diventati ormai malattie sociali? Pensiamo a quanto spazio e quanta attenzione vengono dedicati a un fenomeno ormai diffuso come le crisi di panico. La paura secondo Bauman è un derivato: la vera causa del nostro malessere sarebbe  l’insicurezza. Distingue tre tipi diversi di pericoli che suscitano insicurezza, e quindi paura: i pericoli che minacciano il corpo e gli averi; i pericoli che minacciano la stabilità e l’affidabilità dell’ordine sociale da cui dipende il proprio sostentamento (reddito, lavoro) o la propria sopravvivenza in caso di invalidità e vecchiaia; i pericoli legati al proprio status, alla propria collocazione nel mondo (posizione nella gerarchia sociale, identità), che espongono alla possibilità dell’umiliazione e dell’esclusione.

La paura tipica del nostro mondo – il mondo liquido nel quale esiste una sola certezza: che il domani non sarà uguale all’oggi – è ubiqua e invisibile, costituita da sostanze con le quali possiamo venire a contatto o dal terrorismo internazionale, coincide con il preannuncio di catastrofi umane e naturali (crack di aziende e borse, reti in tilt, petrolio che si prosciuga, incidenti spettacolari). In tutti questi casi il pericolo non è palese, ma occulto: la paura che ne consegue viene tacitata e ridotta al silenzio. Rispetto ad avvertimenti globali, che si ripetono di continuo, si genera assuefazione: nel mondo liquido dove anche la morte va e viene, ci si è abituati e perfino affezionati agli avvisi di pericolo, alla convivenza con il pericolo: sarebbe snervante passare tutto il tempo ad avere paura, e necessariamente la paura deve essere addomesticata. Ecco che essa vive costantemente accanto a noi, ed è divenuta parte della nostra vita normale: non un’eccezione, ma la regola. La nostra capacità di reagire è di conseguenza diminuita: troppe volte e troppo a lungo siamo stati messi in allarme. Ma sono le stesse fonti della paura (grandi aziende, reti, economia globale) che ci forniscono un rimedio a pagamento per i pericoli causati proprio da loro.

Come al solito, Bauman riesce a toccare un tema sensibile del nostro tempo. Nel suo catalogo di paure ne mette insieme molte e diverse: la paura dell’invecchiamento alla quale porre rimedio con costose terapie non sembra sullo stesso piano delle minacce globali che fanno temere per la vita del pianeta; se il mezzo per debellare il pericolo dell’annunciato millenium bug (che poi non si è verificato) era un programma di protezione dei computer che certo non veniva regalato, non pare che per il terrorismo o l’AIDS, la mucca pazza o il riscaldamento globale – tutti pericoli grandi e più volte annnunciati – esistano in commercio gadget da acquistare per dormire sonni tranquilli. Se ci fossero, li avrei già acquistati tutti.

Il mondo descritto dal sociologo polacco è un mondo dove “la macchinazione è nascosta nel pacchetto in offerta”, dove si specula sui timori della gente, dove il consumismo viene utilizzato come ansiolitico, dove lo Stato cede il suo ruolo alle fabbriche di armi e delega la difesa della vita ai singoli in una retribalizzazione violenta della società, dove si preferisce commutare il pericolo in rischio e pensare solo ai rischi piccoli e vicini piuttosto che ai pericoli impegnativi che pendono sulla nostra testa. Di maniera è l’immagine dei padri fondatori della società moderna: “i saggi dell’Illuminismo, i loro eredi e discepoli”. Porre la modernità esclusivamente sotto il segno dell’Illuminismo è quantomeno riduttivo. Ma è ancora più di maniera e più riduttiva l’immagine dell’Illuminismo che Bauman propone: autore del progetto di una vita nuova nella quale “si sperava che l’impresa di domare le paure e di imbrigliare i pericoli da cui esse derivano potesse realizzarsi”. Si dimentica completamente che l’illuminismo possiede non trascurabili lati d’ombra, che è assai meno fiducioso che tutto nel mondo dell’uomo e della natura si possa controllare di quanto una sua immagine convenzionale e ormai invecchiata non suggerisca, si dimentica che la ragione moderna che l’Illuminismo in parte incarna è assai più incerta, debole, priva di fiducia nelle sue forze che non orgogliosa,  affermativa e totalizzante come è stata spesso presentata.

Ma veniamo al nocciolo del libro: nocciolo che, come dicevo, è politico. Bauman sostiene infatti che lo Stato, che storicamente e nella teoria politica trova nella “promessa di proteggere i cittadini dalle minacce alla loro esistenza” la sua ragion d’essere e la giustificazione dell’obbedienza che richiede, non è attualmente più in grado di tener fede a tale promessa, in particolare per quanto riguarda i pericoli del secondo e terzo tipo. Non riesce neppure a riformulare quella promessa nello scenario mutato nel quale viviamo: la globalizzazione dei mercati e la loro extraterritorialità. Che cosa è costretto dunque a fare lo Stato? Deve “spostare l’accento della ‘protezione dalla paura’ dai pericoli per la sicurezza sociale a quelli per l’incolumità personale. In tal modo lo Stato ‘sussidiarizza’ la battaglia contro le paure ‘abbassandola’ alla sfera della ‘politica della vita’, gestita e condotta dagli individui, e al tempo stesso appalta ai mercati dei consumi la fornitura delle armi per combatterla.” Rileggendo il Leviatano di Hobbes (che certamente è alla radice della fondazione moderna dello Stato e rappresenta una delle maggiori giustificazioni che siano state prodotte per la sua  esistenza) sorge tuttavia un dubbio: vi si legge che la prima cosa che lo Stato deve garantire è proprio la vita, la vita fisica, l’esistenza nel senso dello stare al mondo, dell’uomo. Il motivo per cui gli uomini (che nello stato di natura sono in una condizione di conflitto reciproco permanente che li espone al rischio della morte) cedono i loro poteri allo Stato è proprio quello di garantire prima di tutto la loro vita. In questo modo si stabilisce la pace, e nella condizione di pace i beni dell’individuo possono passare dallo status di possesso a quello più stabile e formale di proprietà. Lo Stato riceve dagli uomini  ogni potere e si pone sopra di essi come unico detentore della violenza, come unica fonte della legge, che da quel momento rappresenterà la suprema regola alla quale gli individui si dovranno conformare.

Una volta che lo Stato ha permesso la cessazione del conflitto fra gli uomini garantendone prima di tutto la vita, ha assolto al compito primario per il quale è stato creato. Questo, in abregé e con le scuse più vive agli specialisti del grande inglese, è il modo in cui Hobbes immagina il contratto che dà luogo allo Stato. Se lo Stato non assicurasse la cessazione della guerra di tutti contro tutti che esisteva prima della sua comparsa, verrebbe meno anche la sua ragion d’essere.

Come si fa allora a sostenere che lo Stato compie qualcosa di improprio e di regressivo quando difende l’esistenza (nel senso di “vita”) del cittadino? Non è questo uno dei suoi compiti fin dall’inizio? Non è questo che leggiamo in una delle sue massime giustificazioni teoriche di epoca moderna?

Bauman intende dire probabilmente qualcosa di diverso: la realtà dello Stato a cui abbiamo assistito nella storia contemporanea ha prodotto uno Stato che ha garantito condizioni di sicurezza per il reddito e il lavoro (secondo tipo di pericolo), e si è immischiato anche nelle questioni che riguardano lo status sociale, l’identità di classe, di genere, di etnia e di religione, l’esclusione sociale (terzo tipo di pericolo). Questi appaiono scopi più vasti e di qualità più elevata rispetto alla semplice difesa della vita: la difesa dell’esistenza del singolo può essere percepita da questo punto di vista come un abbassamento, un ritorno a stadi più primitivi. Probabilmente l’obiettivo di Bauman è la critica di uno Stato che vende armi ai privati con grande facilità e che così facendo non scoraggia dall’usarle. Ma – sempre secondo la teoria hobbesiana – lo Stato che si comporta in questo modo perde le ragioni del suo esistere, dal momento che non risponde alla richiesta che gli viene rivolta nel contratto originario: fornire pace in cambio di obbedienza, far cessare la guerra interna mettendo fine all’autodifesa del singolo per consegnare la violenza tutta e unicamente nelle mani dello Stato. La condanna di un mondo composto da giustizieri della notte è già contenuta nella teoria dei padri fondatori dello Stato moderno.

Bauman denuncia ancora una volta un mondo dove l’unica certezza è il cambiamento, dove il gioco è ad excludendum e ognuno ha paura di essere l’escluso, il minacciato, il colpito da catastrofe memtre tutti gli altri se la spassano, dove l’immagine prevale sulla parola scritta o ascoltata. Ancora una volta con queste tesi offre opinioni che non avrebbero bisogno di scomodare un sociologo di così vasta fama: la deprecazione del mondo ridotto a immagine (e a immagine televisiva) ormai sembra non convincere del tutto neppure chi se ne fa portavoce. Bauman, come in tutti gli altri volumi che recano nel titolo il termine “liquido” (e anche in alcuni che non recano tale termine), denuncia la società individualizzata nella quale il legame sociale si va disperdendo: e i legami sociali sono il fondamento dell’azione solidale. Ma – esattamente come viene voglia di accendere la televisione di fronte alle critiche del tutto sproporzionate che le vengono rivolte -, così la vivisezione e la condanna che Bauman sta conducendo da qualche anno del mondo in cui viviamo assomiglia sempre meno a una analisi ponderata e sempre più a una predica moraleggiante, e rischia di avere l’effetto contrario a quello che si propone: spingere, per contrasto, a una adesione eccessiva e sconsiderata a questo liquido ma vivace, mutevole e globale, ansiogeno e polverizzato, imprevedibile e pericoloso mondo liquido.

Z. BAUMAN, Paura liquida, trad. it. Roma-Bari, Laterza, 2008