E’ la Puglia di Vendola a stare dalla parte sbagliata della storia

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E’ la Puglia di Vendola a stare dalla parte sbagliata della storia

15 Febbraio 2011

Critiche, anche feroci, sono piovute come fulmini sul pianeta berlusconiano in queste settimane. Un esercito di improvvisati Zeus non ha avuto alcun timore di scaraventare le sue saette contro chi governa legittimamente il Paese dopo aver stravinto le ultime elezioni politiche: moralisti (veri e presunti), giustizialisti d’annata e neofiti del politically correct si sono seduti allo stesso banchetto, sperando di poter brindare il prima possibile alla caduta, ingloriosa, di Silvio Berlusconi.

Nichi Vendola, che mai si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di indossare i panni della maestrina Rottenmeier, ha bacchettato più volte il premier elevandolo a simbolo di quella che, agli occhi dei Robespierre e delle signore in rosa di Senonoraquando?, sarebbe il simbolo della degenerazione dei costumi di una penisola che è stata per secoli culla del bello e dell’eleganza. Il Governatore della Puglia, però, non ha solo criticato – giudicato, nel suo pieno senso etimologico – la decadenza dei costumi nostrani, ma ha avuto l’ardire di valutare nella complessità un’intera epoca, sociale e politica, fatta di lotte e competizioni elettorali, con donne e uomini come protagonisti, ponendo “l’Italia di Berlusconi dalla parte sbagliata della storia”. Dall’autorevole pulpito del The Guardian – il quotidiano che ha esportato in tutto il mondo il suo essere radical chic – il Poeta di Terlizzi non ha avuto paura di recitare la sua predica sperando, forse, di non essere letto dalla "provincialotta" stampa italiana che sa bene, invece, chi sono coloro che per anni si sono seduti con orgoglio e convinzione dalla parte che la storia, unico giudice inesorabile, ha giudicato “sbagliata”.

Nichi Vendola, comunista dei tempi che furono, compie così un errore grossolano e getta la palla nella propria porta segnando il più fantastico degli autogol: la parte sbagliata della storia, quella che il mondo ha conosciuto e lottato è proprio quella, rossa di vergogna, che è alla base del Vendola-pensiero. Le manifestazioni per la difesa dei diritti delle donne, a suo dire minacciati dal machismo dirompente del berlusconismo, non sono nemmeno uno sbiadito ricordo di quelle che, per decenni, centinaia di cittadini inferociti hanno organizzato nel mondo occidentale per l’affermazione dei più elementari diritti umani negati nei paesi dell’orbita comunista; così come l’invocazione alla libertà politica e la richiesta di dimissioni di chi ha vinto le elezioni poco più di due anni fa stride, nell’album dei ricordi, con la difesa di quei regimi comunisti che hanno gettato, non meno di altri, sangue sulle strade del Novecento.

Nichi Vendola si presenta ai lettori del Guardian come l’ultima ancora di salvezza per l’Italia, un Paese che non ha un’adeguata politica economica, che sbaglia le alleanze strategiche e sul quale l’Europa non può contare per un’efficace politica estera. Eppure Vendola, che si dice pronto a raccogliere la sfida di guidare il Bel Paese, nei suoi anni di governo ha razzolato molto male – la Puglia decresce quotidianamente – ma il vero paradosso è che predica ancora peggio: se i mercati industriali si aprono a nuove frontiere, lui invece critica il nuovo piano Fiat targato Marchionne; se il multiculturalismo viene ora osteggiato da coloro che – per anni – ne hanno fatto un fiore all’occhiello (Germania e Gran Bretagna in primis), Vendola si spertica nel suo elogio; se i nuovi scenari in evoluzione del Mediterraneo sono oggetto di studio da parte di storici e politologi lui, con belle parole piene di vento, sostiene che “l’Unione Europea con Berlusconi non possa contare sull’Italia per una nuova politica estera che consideri i nuovi assetti mediterranei”, dimenticando il ruolo centrale dell’Italia nella lotta all’immigrazione clandestina.

Viene da pensare che sia proprio lui, poeta in cattedra, a sbagliare l’analisi: forse non è l’Italia di Silvio Berlusconi ad essere dalla parte sbagliata, ma lo è piuttosto quella di un anacronistico comunista – molto bravo ad auto promuoversi, non ci sono dubbi – che ama chiacchierare nei più importanti circoli radical chic, aspirando alla leadership anziché preoccuparsi della Regione che ha avuto mandato dagli elettori di amministrare.