E l’America diventa un modello di giustizia sociale

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

E l’America diventa un modello di giustizia sociale

04 Giugno 2007

E’ ovvio, rimettere in discussione le proprie convinzioni costa molta fatica. Si tratta non solo di modificare abitudini mentali consolidate, ma ancor più di rendere incerte le fondamenta teoriche sulle quali si sono costruite scelte politiche ed i comportamenti conseguenti. Nell’immaginario collettivo italiano (ma non solo italiano) gli Stati Uniti sono da sempre identificati come un sistema di grande forza economica e di grandi libertà, ma affetto da un insolubile problema di equità sociale. Una società con grandi spazi e grandi opportunità, nella quale però i processi di crescita economica finiscono inevitabilmente per determinare un aumento delle diseguaglianze economiche e soprattutto un peggioramento delle condizioni di coloro che si trovano al fondo della “classifica sociale”. Si tratta di uno dei totem della italica cultura progressista. Ma, in fondo, di altro non si tratta se non di una riedizione della teoria marxiana (smentita dallo sviluppo storico) della progressiva proletarizzazione delle società borghesi che avrebbe dovuto determinare il declino del sistema capitalistico. Un’idea così radicata che, anche nei settori non marxisti della politica e della cultura italiana, ben pochi sono disponibili a difendere il modello sociale americano, non solo in nome delle sue virtù in termini di libertà e di prosperità economica, ma anche della sue enormi potenzialità in termini di giustizia sociale.

Non è quindi un caso che un studio assi interessante sui redditi delle famiglie povere americane negli ultimi venti anni, elaborato dal Congressional Budget Office (CBO) – l’autorevole ed indipendente ufficio del bilancio del Congresso americano – sia stato quasi del tutto ignorato dalla stampa italiana (con la sola meritevole eccezione de “Il foglio” di venerdì 25 maggio). Eppure lo studio (Changes in the Economic Resources of Low-Income Households with Children) contiene dati importanti e, soprattutto, nient’affatto scontati.

Prendendo in esame l’andamento dei redditi complessivi delle famigli americane con figli dal 1991 al 2005 lo studio del CBO evidenzia come il reddito  appartenenti all’ultimo quintile (ovvero il quinto più povero della società americana, con reddito medio pari a $ 12400 nel 1991) siano cresciute in termini reali (al netto dell’inflazione ) del 35%: la percentuale più alta rispetto a quella di tutti gli altri quintili, ad eccezione del quintile più ricco (quello con reddito medio di $11470 nel 1991) cresciuti in termini reali di quasi il 60%. Già questo dato è di estremo interesse: dell’impetuosa crescita economica del capitalismo americano durante gli anni Novanta le famiglie con i redditi più bassi sono state fra coloro che ne hanno beneficiato maggiormente. Né il rallentamento della crescita economica  a partire dall’inizio del nuovo millennio le ha colpite in modo significativo. Ma i dati diventano ancora più interessanti man mano che si fanno più analitici. In realtà l’aumento dei redditi delle famiglie più povere dipende in misura maggiore dall’aumento dei salari e degli stipendi e solo in misura ridotta dall’ammontare delle provvidenze e degli aiuti pubblici. Anzi, la crescita dei salari dell’ultimo quintile nel periodo considerato ha superato l’80% ed è stata la maggiore rispetto a quella di tutti gli altri.

Il “paradosso americano” indica come man mano che sono stati riformati i tradizionali strumenti di welfare la condizione economica dei più poveri è migliorata. Tagli di imposta, riforme dal welfare, introduzione di sussidi basati su crediti di imposta (con minori costi burocratici) hanno determinato un aumento dei salari e quindi del reddito complessivo. L’immagine che ne esce è molto lontana dai cliché della pubblicistica politicamente corretta del nostro Paese. E’ la conferma che l’unica strategia veramente efficace per affrontare i problemi della povertà è rimettere in moto i processi di crescita economica liberando le forze del mercato dai lacci e laccioli che, giustificati come correttivi a fronte di fallimenti del mercato, molto spesso si risolvono unicamente in creazioni di privilegi e rendite, in protezione delle posizioni sociali acquisite. Non è del resto un caso che la società americana sia quella nella quale si registra il più alto tasso di mobilità sociale: in nessun altro paese è infatti così alta la percentuale di coloro che riescono in un periodo di cinque anni a modificare significativamente la propria posizione economica passando ad uno dei quintili superiori. Quest’ultimo è un profilo decisivo per chi è veramente attento alle esigenze di equità sociale. Il più delle volte ciò che risulta realmente insopportabile non è la condizione di difficoltà economica, ma la consapevolezza che quella situazione sarà con ogni probabilità destinata a perdurare per tutta l’esistenza. Accanto all’equità sociale nello spazio (come sono distribuite le risorse del sistema economico ad una certa data) esistono, e – sotto molti aspetti – sono più importanti, problemi di equità nel tempo (come varia la distribuzione delle risorse nel corso del tempo). Purtroppo la cultura progressista ha da sempre considerato i problemi della giustizia distributiva da una prospettiva statica, quasi che la ricchezza fosse una torta da distribuire e non un flusso di risorse che può crescere e diminuire. E che, crescendo in modo dinamico, può premiare coloro che prima erano penalizzati.

Ma c’è un altro aspetto che sarebbe necessario che la cultura democratica del nostro Paese mettesse a fuoco. Troppo spesso la valutazione dell’equità di un sistema sociale viene affidata alla misurazione del tasso di disuguaglianza: la distanza che corre fra coloro che stanno meglio e coloro che stanno peggio. In realtà, salvo voler riconoscere uno statuto morale all’invidia sociale, la distanza sociale in quanto tale è del tutto insignificante in termini di equità e di giustizia. Ciò che conta è che la società sia organizzata in modo tale da rendere migliore, in termini assoluti, la posizione di coloro che stanno peggio. Non ha nessuna importanza se per raggiungere tale fine si determini un miglioramento della posizione dei più ricchi. “I maggiori benefici ottenuti da pochi non costituiscono un’ingiustizia a condizione che anche la situazione delle persone meno fortunate migliori”. E si badi non si tratta di una posizione ispirata ad un liberismo selvaggio. Si tratta solamente della teoria della giustizia di John Rawls, filosofo amato dai liberal di tutto il mondo. Ma chissà se tra le icone del partito democratico nostrano, accanto allo slow food e all’ARCI gay, all’hard rock e alla beat generation, alla cucina vegetariana ed a quella vegetaliana, agli ambientalisti ed agli animalisti, resterà un po’ di spazio anche per John Rawls.