E’ lo spettro del milazzismo che fa tremare il Pdl in Sicilia
26 Maggio 2009
Molto trasversalismo accanto a una buona spruzzatina d’antico: questi, in sintesi, i possibili ingredienti della repentina svolta imposta ai vertici siciliani dal governatore Raffaele Lombardo. Il leader dell’Mpa ieri ha azzerato la giunta e ha annunciato di aver dato agli alleati (alla regione, Pdl più Udc) “quarantott’ore di tempo per capire chi vuole far parte dell’esecutivo e chi invece starà fuori”, dato che, ha aggiunto il leader catanese, “sono per la creazione di un governo di unità sociale”. In parole povere, per i si dice e per i ben informati, una specie di riedizione del vecchio Milazzo. Ovvero di quel governo, oggi definibile di ribaltone, che nell’oramai antelucano millenovecentocinquantotto, spedì all’opposizione una diccì di ispirazione fanfaniana, egemone ma martoriata da troppe divisioni intestine grazie alla defezione di un parlamentare regionale dello scudocrociato, originario di Caltagirone, sino a quel momento alunno devoto dei concittadini don Sturzo e Mario Scelba. Il deputato voltagabbana, appunto Silvio Milazzo, da cui il nome della svolta, giudò l’isola per circa un biennio, grazie a maggioranze variabili che includevano dai missini al piccì, accanto a un consistente gruppuscolo di cattolici “democratici” fuoriusciti dalla Balena bianca. Un manovra che ai tempi fece parecchio rumore. Ritardò non poco l’avvicinamento dei socialisti all’area di governo e relegò, almeno un per certo periodo, a un ruolo più defilato l’allora ingombrantissimo Amintore Fanfani, padrone assoluto del grosso di quei democristiani lasciati a bocca asciutta dalla svolta panormita e che, a molti osservatori, apparve come il vero sconfitto del voltafaccia di Palazzo dei Normanni.
Oggi qualcosa di quel clima e di quegli spiriti sembra tornare a soffiare dalle parti di Palermo, fra certe elites e in generale fra quei segmenti di ceto politico che hanno scommesso su un’ isola che mantiene anzi forse accentua certune regalie ottenute nel dopoguerra con lo Statuto. D’altronde lo stesso Lombardo in più di un occasione è ritornato sull’argomento, sottolineando il carattere positivamente autonomista di quella lontana esperienza da valorizzare perché svicolata dagli equilibri centralisti prevalenti nella capitale. Ora, dopo messi di polemiche al calor bianco che vedevano Mpa da una parte e dall’altra i sodali di Totò Cuffaro e il Pdl locale (per capirci l‘asse Castiglione-Schifani-Alfano), con l’esclusione del gruppo legato a Gianfranco Micciché, è capitato l’inevitabile, ma forse non l’irreparabile. Quarantott’ore sono effettivamente poche per rimettere assieme i cocci.
Gli addetti ai lavori parlano di un’ipotesi di governo istituzionale, metà politici metà tecnici. Si fanno persino i nomi degli assessori in pectore. Un arco di papabili ad ampio spettro che abbraccia personalità come l’ex amministratore delegato della St. Microelectronicis, Pasquale Pistorio piuttosto che il missino di lungo corso Giudo Lo Porto e comprende persino uno dei sopravvissuti del milazzismo, Ludovico Corrao, diccì di sinistra e massimo ideologo di quel cambio di maggioranza datato fine anni Cinquanta, successivamente eletto al Parlamento nazionale fra gli indipendenti di sinistra. Per il momento, illazioni. Voci, accanto a cautela e nervosismi diffusi. I vertici del Pdl dicono e non dicono. L’estrema ratio della mozioni di sfiducia allo stato è giudicata prematura. Attesa simile fra i seguaci di Casini, che attraverso il leader locale, Saverio Romano, affermano di aspettare di capire i termini della “proposta Lombardo”. Cauta anche l’opposizione, seppure sia più dialogante che no. Insomma siamo ancora alle mosse iniziali, con in più solo l’ombra svolazzante e un po’ imbronciata di un vecchio rompighiaccio calatino, nome e cognome al secolo Silvio Milazzo.