E’ partita la “operazione riconquista” di Sarkozy

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E’ partita la “operazione riconquista” di Sarkozy

25 Aprile 2008

Cambiare? Nella forma (in parte), nel metodo (un minimo), ma certamente non nella sostanza! Sarkozy non rinuncia alla missione per la quale è stato eletto e che considera decisiva per il Paese: la sua riforma complessiva, il recupero del terreno perso negli ultimi 25 anni. Questo il messaggio principale della lunga intervista televisiva del Presidente francese, a circa un anno dalla sua vittoria elettorale del maggio 2007. Sarkozy ha voluto implicitamente rispondere a tutti quei critici che, come il direttore di «Le Monde» Eric Fottorino, gli hanno rimproverato di essere «troppo Nicolas e troppo poco Sarkozy», di non essere in grado di incarnare il ruolo e di aver smarrito la rotta del suo piano di riforma della Francia. A questi scettici, e in particolare ad un’opinione pubblica che nei sondaggi si mostra sempre meno in sintonia con il suo Presidente, Sarkozy ha presentato una vera e propria «operazione riconquista».

Prima tappa di questa risalita la conferma di un cambio netto nella forma. Gli eccessi di esposizione mediatica e il trionfo del personale nel pubblico sono stati da alcuni mesi accantonati; ci si riferisce in questo caso a qualcosa di più profondo. Mostrandosi umile, rinunciando a qualsiasi annuncio a sorpresa, riconoscendo una serie di errori commessi in prima persona e adottando una vera «postura presidenziale», soprattutto nelle risposte riguardanti la politica internazionale e l’attestato di stima al senso di responsabilità dei sindacati, Sarkozy sembra aver finalmente dismesso i panni del grande concorrente alla presidenziale ed incarnato quelli del Presidente della Repubblica. In questo senso ha rinnegato se stesso e la sua rupture? Più prosaicamente ha provato sulla propria pelle quanto sia difficile cambiare in profondità la Francia e quanto questo finisca per smuoverne gli istinti più profondi. In questo caso il «giansenismo presidenziale» può allora essere più funzionale che la «presidence bling bling».

Della forma si è detto, ma nella sostanza Sarkozy non arretra di un millimetro e in un duplice senso. Da un lato rivendica l’apertura di 55 cantieri di riforma e rispedisce al mittente la critica, anche interna al suo fronte, secondo la quale servirebbe uno schema più chiaro ed indicare una gerarchia delle priorità. La rupture, così come teorizzata sin dalle origini, necessita di un progetto complessivo e avvolgente, affrontare i singoli dossier uno dopo l’altro non servirebbe a fornire al Paese quello choc salutare che nella visione di Sarkozy dovrebbe permetterne la ripartenza. Dall’altro si mostra consapevole che «cambiare il Paese, nel breve periodo, non può portare a sondaggi positivi». Su questo punto la lezione è di quelle da tenere a mente, anche nel nostro Paese, ma le prospettive non sono delle più rosee. Se si pensa all’Europa degli ultimi due decenni, i veri cicli di riforma sono stati portati a termine soltanto da politici che hanno potuto operare sul lungo periodo (Blair, Aznar e per certi aspetti Schroder, che ha avviato un percorso i cui frutti sono raccolti oggi da Merkel) e in condizioni economiche meno proibitive di quelle attuali.

Le difficoltà che sta attraversando l’economia mondiale e quella europea in generale hanno così fatto più volte capolino nelle risposte di Sarkozy, il quale si è soffermato sul quadruplice choc economico subito dal Paese: costo del petrolio, mutui subprimes, fiammata dell’euro e costo delle materie prime.

Se possibile è proprio questa delicata congiuntura economica a rendere ancora più necessario accelerare sul fronte delle riforme. Nessuna ricetta magica, ma la convinzione di aver operato nella giusta direzione: il Paese ha bisogno di lavorare di più e meglio (accelerare su 35 ore e detassazione degli straordinari) ma anche più coinvolgimento dei dipendenti nei profitti aziendali e responsabilizzazione del disoccupato obbligato a non rifiutare un impiego che gli garantisce il 95% della retribuzione del precedente lavoro dopo tre mesi di disoccupazione.

Sarkozy è parso ugualmente deciso a non arretrare di un passo sui temi dell’immigrazione, tornati d’attualità dopo lo sciopero dei sans-papiers che lavorano nella ristorazione. «Non si diventa francesi perché si lavora in un ristorante francese». Quindi nessuna sanatoria, né annuncio di regolarizzazione di massa, con l’unico effetto di fare la fortuna delle centrali dell’immigrazione clandestina. Al contrario insistere su un’immigrazione economica, e dunque «scelta», e non fondata sul vecchio criterio del ricongiungimento familiare.

Infine le grandi questioni estere, senza dubbio l’ambito nel quale il Presidente ha ottenuto fino ad oggi più successi. Dopo aver sgombrato il campo sull’Afghanistan (nessun negoziato con i talebani, «gente del medioevo», e chiarezza sull’obiettivo finale: se cade Kabul, il Pakistan lo seguirà a ruota), il tema Cina. Le posizioni critiche di Parigi hanno nell’ultimo periodo incontrato la stizzita reazione di Pechino. Il Presidente ha ricordato che non si tratta di soli contratti commerciali: quando si parla di Cina bisogna ricordare il suo diritto di veto all’Onu. Per questo motivo il tema dei diritti umani, della questione tibetana e degli imminenti giochi olimpici dovrà essere affrontata a livello Ue. L’impegno a partire dal primo luglio, quando Sarkozy diventerà presidente di turno dlel’Unione, andrà proprio nella direzione di trovare una sola voce nei rapporti Europa-Cina.

Infine la domanda classica: Turchia sì – Turchia no? Risposta classica: no ad Ankara nella Ue semplicemente perché non appartiene allo spazio geopolitico europeo e perché integrare 100 milioni di turchi non è uguale ad integrare 3 milioni di croati.

L’opposizione socialista ha già annunciato: niente di nuovo sotto il sole dopo l’intervista di Sarkozy. Ma il Presidente più che alla sbandata pattuglia socialista, che nella sostanza non è ancora riuscita a criticare uno dei provvedimenti proposti dal Presidente, guarda con apprensione alla reazione dell’opinione pubblica. È una lunga traversata del deserto quella avviata da Sarkozy che più volte ha trovato nei momenti di massima crisi la forza per risalire (basti pensare al 1995, quando aveva scommesso su Balladur e si trovò Chirac all’Eliseo e al 1999 quando la sua lista alle europee fu superata da quella del gollista dissidente Pasqua). L’impresa sembra oggi titanica, ma su un punto persiste un minimo di ottimismo: al di là dei 90 minuti in Tv, il Presidente ha ancora quattro anni di lavoro davanti a sé.