E’ sbagliato negare che il fascismo è stato un regime e pure totalitario
21 Novembre 2010
Il maggiore storico del fascismo italiano, Emilio Gentile, da tempo ricorda come sia ricorrente il tentativo di «defascistizzare il fascismo». Questo avverrebbe negando «per esempio, che vi sia stata un’ideologia fascista, una cultura fascista, una classe dirigente fascista, un’adesione di massa al fascismo, un totalitarismo fascista e perfino un regime fascista». Se qualcuno ne vuole una prova recentissima, bella e fresca di stampa, si può leggere il nuovo saggio di Sabino Cassese, “Lo Stato fascista” (il Mulino, pagine 150).
Cassese è uno studioso di notevole valore, esperto delle questioni inerenti alla dottrina dello Stato e dell’amministrazione statale, oltreché giudice della Corte costituzionale. Nel suo studio considera il fascismo una sorta di rivoluzione abortita. Aveva intenzione di costruire una forma statale completamente nuova; in realtà riadattò, fascistizzandolo, l’ossatura dello Stato liberale. Certo, sostiene Cassese, lo Stato fascista fu autoritario e dittatoriale. Abolì le libere elezioni, creò istituzioni e centri di potere innovativi, ma tutto sommato non fu veramente rivoluzionario.
Negli intenti, negli slogan, nelle dichiarazioni e nella dottrina il fascismo descrisse se stesso come un superamento statuale del liberalismo, del parlamentarismo, del clericalismo, dello spirito borghese, del capitalismo. Questo sul piano della polemica. Ma sul versante della realtà la monarchia non fu rovesciata, la Chiesa non fu perseguitata, l’odiata borghesia non fu cancellata, i residui “senatoriali” del vecchio sistema parlamentare liberali non furono cancellati. Il fascismo fu al tempo stesso anti-borghese e borghese, reazionario e modernizzatore, ostile e favorevole al cattolicesimo. E, soprattutto, conclude Cassese, il fascismo non fu totalitario.
La via italiana al totalitarismo rappresentata dal fascismo è una via fuorviante. Chi intende seguirla sbaglia cammino. Fondamentalmente il fascismo italiano fu il mussolinismo riversatosi nello Stato. Per vent’anni tutto si resse sulla forza e sulla presenza del Duce. Ma dal punto di vista dello Stato, Mussolini non fece altro che ereditare e adattare una forma vecchia (quella liberale), trasferitasi successivamente nella successiva esperienza repubblicana. L’idea del fascismo come parentesi, scrive Cassese, «di una cesura netta tra periodo fascista e Italia repubblicana, dunque, è errata. O, meglio, corrisponde più a un bisogno dei contemporanei di stabilire una distanza tra il fascismo e se stessi, che alla realtà dei fatti».
Lo stesso ragionamento vale per lo Stato liberale. Dichiararsi totalitari, come fecero i fascisti, servì più ai contemporanei per distanziarsi dalla classe politica liberale e dalla Monarchia. Ma i fatti erano ben diversi. Per corroborare la tesi esposta da Cassese si potrebbe invocare Mussolini stesso. Il Duce nella stagione di Salò, amareggiato per il corso assunto dagli eventi e per i comportamenti degli uomini, si sfogò in una serie di articoli apparsi sul “Corriere della Sera”, raccolti poi nel libro, edito da Mondadori nel 1944, “Storia di un anno. Il tempo del bastone e della carota”. Nel capitolo “Il dramma della diarchia” Mussolini si concentra sul fatto che nel fascismo qualcosa non ha funzionato, sin dalle origini. Il suo movimento insurrezionale non è stato capace di realizzare una vera e propria rivoluzione. «Sboccò questa insurrezione – scrive – in una rivoluzione? No.
Premesso che una rivoluzione si ha quando si cambia con la forza non solo il sistema di governo, ma la forma istituzionale dello Stato, bisogna riconoscere che da questo punto di vista il Fascismo non fece nell’ottobre del 1922 una rivoluzione. C’era una monarchia prima, e una monarchia rimase dopo». Il Re aveva il suo esercito, il suo inno, la sua guardia ordinaria (i carabinieri) e speciale (i corazzieri); il Duce l’aveva imitato con un proprio inno (“Giovinezza”), con la Milizia, con i Moschettieri. E la fine del fascismo fu determinata dalla volontà della Corona, che attraverso una congiura di palazzo sfiduciò Mussolini. Quindi, per tornare a Cassese, il fascismo va compreso entro l’orizzonte del mussolinismo. Non a caso il libro si apre con una recente considerazione dello storico Piero Melograni: «sarebbe opportuno parlare non di fascismo, ma di mussolinismo. Il che aiuterebbe a capire meglio anche il consenso, che Mussolini ha avuto davvero».
Invece Sabino Cassesse ha torto. Il fascismo fu un regime totalitario. La categoria del “totalitarismo” è stata una delle grandi questioni intellettuali messe in campo nel corso della “guerra fredda” per combattere il comunismo, l’unico regime totalitario rimasto in vita dopo la morte del fascismo avvenuta nel 1945. L’analisi di un composito gruppo di intellettuali, perlopiù liberali, da Raymond Aron ad Hannah Arendt, si focalizzò sulla comparazione tra il comunismo e il nazismo, ritenendo il fascismo italiano difforme da quello tedesco. Conclusa la “guerra fredda” il concetto di totalitarismo non ha più nulla di concreto. Quindi ha perso la carica ideologica. È ritornato nell’alveo dei fenomeni del passato.
Cassese si interroga sulle forme dello Stato, e conclude che il fascismo non è stata un’esperienza totalitaria. Ma dimentica l’aspetto della cultura. La vecchia tesi del fascismo privo di cultura e di ideologia, e pertanto di “consenso” popolare e intellettuale, espressa ad esempio con forza da Norberto Bobbio, è stata superata da studi, italiani e internazionali, ormai incontrovertibili. Il fascismo attrasse molti intellettuali, presentandosi come un nuovo modello di modernità che avrebbe risolto la crisi europea contemporanea e gli antichi problemi di integrazione nazionale. Il maggior filosofo del fascismo, Giovanni Gentile, considerava il fascismo una «rivoluzione spirituale», una reazione alla decadenza nella quale era caduta irrimediabilmente la cultura italiana.
Dunque il fascismo italiano deve essere inteso come il modello originale del “modernismo reazionario”: un tentativo di modernizzazione della società, certo autoritario, ma per nulla spaventato, anzi entusiasta di padroneggiare a proprio piacimento (e dunque a fini propagandistici) le nuove tecnologie dell’informazione, della mobilitazione di massa e di governare i nuovi processi dell’economia capitalista dominata dallo strapotere delle macchine. Il fascismo italiano fu il banco di prova della «modernità totalitaria». Attecchì successivamente in Germania, in Spagna, in Portogallo, in tanti altri paesi europei, compresa la Francia e l’Inghilterra. Ebbe una sua letteratura, una sua mitologia, suoi uomini d’azione, esercitò l’attenzione internazionale. Poi cadde nella violenza, nella persecuzione e nel bagno di sangue finale della seconda guerra mondiale. E ci cadde perché era un regime totalitario.