E’ sbagliato pensare che la tecnologia tolga spazio all’umanesimo
09 Gennaio 2012
Nel celebre volumetto Le due culture pubblicato nel secolo scorso alla fine degli anni ’50, lo scienziato e scrittore britannico Charles Percy Snow lanciava un grido d’allarme denunciando la crescente separazione tra la cultura umanistica e quella scientifico-tecnologica. Egli era invece convinto che la cultura è una sola, che la summenzionata distinzione è in fondo artificiale e ingiustificata, e che occorre superare questa barriera che giudicava negativa per le sorti del mondo e del sapere. Non a caso, la traduzione italiana dell’opera, uscita nel 1970 per i tipi di Feltrinelli, fu curata da Ludovico Geymonat, pioniere della filosofia della scienza nel nostro Paese e convinto assertore dell’unicità della cultura.
Il punto cruciale, tuttavia, è capire la natura e l’essenza della cultura. Curiosamente Snow, quando parla delle “due culture”, si riferisce sempre agli specialisti, e questa è una visione elitaria e poco realistica. Snow, scienziato per formazione e romanziere per vocazione, immaginava i salotti inglesi divisi in due. Da una parte gli scienziati che – chissà perché – non hanno mai letto Dickens, e dall’altra gli umanisti che – cosa più plausibile – non conoscono la seconda legge della termodinamica.
In realtà la cultura è un insieme strutturato di conoscenze specialistiche dotate di un valore non solo teorico o contemplativo, ma anche politico e, soprattutto, pragmatico. Non ci sono due culture, ma solo una, e la vera distinzione da fare è tra cultura e in-cultura. La conoscenza non diventa cultura se è incomunicabile, e questo vale sia per il versante umanistico sia per quello tecnico-scientifico. In Italia la situazione è ancor più complicata a causa del lungo predominio di tendenze idealistiche in filosofia e nelle scienze umane, tendenze che – non tutti lo sanno – sono state trasmesse anche alla scuola marxista italiana, poiché Gramsci fu assai influenzato da Croce. La scienza, per Benedetto Croce, era solo “un libro di ricette di cucina”, e ancor meno valeva la tecnica. La vera cultura si faceva in altre sedi.
Tuttavia, se si guarda attentamente alle grandi svolte del pensiero scientifico, e allo sviluppo dell’innovazione tecnologica, si coglie sempre una creatività in grado di travolgere qualsiasi steccato disciplinare. La separazione tra le culture discende dalla tesi che vede le acquisizioni umane quali entità fisse, sospese in un cielo platonico di idee pure e indipendenti dalla realtà empirica. Al contrario, le teorie scientifiche e le innovazioni tecnologiche, come i miti, le credenze religiose, le dottrine politiche, le creazioni artistiche, sono realtà viventi in incessante trasformazione, che interagiscono con il loro ambiente specifico, e con l’ambiente circostante in generale.
Scienza e tecnica sono “cultura” nel senso più pregnante del termine. L’impresa tecnico-scientifica è uno dei più forti fattori di rinnovamento intellettuale e anche etico. Non dimentichiamo che, oggi, molti dei problemi etici che i filosofi affrontano nascono per l’appunto in ambito scientifico e tecnologico: basti pensare alla bioetica.
Gli sviluppi tecnologici possono per esempio aiutare filosofi e umanisti in genere a riflettere su problemi fondamentali: la loro presenza consente di cogliere elementi che non erano disponibili in passato. Prendiamo in considerazione un caso noto. Si parla spesso di computer che “pensano”, e tale metafora ha avuto un enorme successo. Ma cosa significa “pensare”? Tutti sappiamo che un computer può vincere una partita a scacchi con un giocatore anche molto esperto, e da questo a dire che la suddetta macchina “pensa” il passo sembra facile e breve. Tuttavia non è così. Immaginiamo che il giocatore sconfitto voglia proseguire il dialogo con il calcolatore e, terminata la partita, chieda a quest’ultimo: “Riconosco che sei più bravo e più veloce di me. Io desideravo vincere perché intendevo dimostrare che un essere umano non può essere sconfitto da una macchina. Ora dimmi perché tu hai voluto vincere”. Può un computer gestire un dialogo simile, che fa riferimento diretto all’intenzionalità? Ed è ipotizzabile una sua risposta razionale a un simile quesito?
Naturalmente le opinioni dei filosofi e dei teorici dell’Intelligenza Artificiale a questo riguardo divergono. Tuttavia è utile notare che una risposta positiva risulta assai problematica, poiché il computer non è inserito in un processo comunicativo originario, che faccia cioè riferimento sia ad altri parlanti che a un ambiente circostante, bensì in un processo derivato, dove ciò che realmente conta è l’input che uno o più esseri umani gli trasmettono.
Molti altri esempi si potrebbero citare, tra cui il fatto che la creazione di Internet consente agli umanisti un confronto in tempo reale con le idee di altri studiosi, il che era impensabile sino a pochi decenni fa. Mi preme comunque sottolineare che il pessimismo circa le nuove tecnologie è ingiustificato. Lungi dal togliere spazio all’umanesimo, esse consentono l’apertura di orizzonti inediti. Gradualmente metodi e problemi filosofici vengono raffinati e compresi attraverso la luce di questi nuovi concetti; man mano che si ottengono risultati originali e interessanti dal punto di vista filosofico, l’impulso originario cresce “a ondate” che attraversano tutta la disciplina.
L’informatica offre alla filosofia un insieme di semplici – ma incredibilmente fertili – nozioni, cioè argomenti, metodi e modelli per la ricerca filosofica nuovi e in continuo sviluppo. L’informatica fornisce così delle nuove opportunità e pone inedite sfide alla tradizionale attività filosofica. Del resto, l’informatica sta modificando l’attività professionale dei filosofi, tanto per il modo in cui essi fanno ricerca, quanto per come collaborano tra loro, e per come insegnano i loro corsi. Ma, ed è questo il punto di maggiore importanza, l’informatica sta modificando il modo in cui i filosofi comprendono alcuni concetti che costituiscono il fondamento della filosofia, come quelli di mente, coscienza, esperienza, ragionamento, conoscenza, verità e creatività. Questo nuovo corso nella ricerca filosofica, che include l’informatica come oggetto di studio, come metodo e come modello, aumenta progressivamente la sua velocità.
L’interesse dei filosofi per argomenti di questo tipo non è certo nuovo. Pitagora era affascinato dal circolo e identificava strettamente la realtà con i numeri. Egli era colpito, per esempio, dal calcolo dei rapporti in musica che dimostravano come la bellezza musicale dipendesse da relazioni matematiche tra le note di una scala. Nel diciassettesimo secolo Thomas Hobbes propose una spiegazione meccanica, “computazionale”, della mente umana. Per Hobbes percezione, immaginazione e memoria potevano essere spiegate in termini di movimenti di materia secondo le leggi della meccanica. Ragionamento non è altro che calcolare, cioè aggiungere e sottrarre, le conseguenze di nomi generali concordati per designare e rappresentare i nostri pensieri.
Per venire a tempi più recenti, Turing pensava che l’agire intelligente potesse essere compreso in termini di computazione, e dopo la fine della guerra propose il gioco dell’imitazione (oggi ben noto come “test di Turing”) per stimare le capacità intellettuali dei computer attraverso la valutazione di conversazioni tra umani che pongono domande, un computer nascosto e degli umani che danno risposte. Quando le idee vengono modellate su un computer, alcune delle conseguenze, soprattutto quelle che emergono dopo una lunga elaborazione, si mostrano in un modo che sarebbe stato assolutamente non rilevabile senza una tale elaborazione da parte del calcolatore; tanto i modelli quanto i metodi possono essere così più precisi, collaudati e raffinati. Questi risultati filosofici possono inoltre essere condivisi con altri che, per parte loro, li sottopongano a esame. I filosofi hanno sempre condiviso le loro idee mediante la produzione scritta, e ora utilizzano spesso il computer per condividere le opinioni: le idee astratte si animano.
E’ interessante notare come siano stati soprattutto i regimi totalitari del XX secolo a cogliere le enormi potenzialità sociali dello sviluppo tecnologico. La Germania nazista, per esempio, fu il terreno ideale di coltura di una corrente di pensiero che si può definire “modernismo reazionario”. Nella Germania di quel periodo vi furono molti intellettuali che miravano a riconciliare le idee antimoderniste, romantiche e irrazionaliste presenti nel nazionalismo tedesco con le più evidenti manifestazioni della moderna razionalità scientifico-tecnologica. L’esaltazione da un lato della razza e della volontà di potenza e dall’altro della tecnologia formò una miscela esplosiva, destinata a travolgere in breve tempo tutti gli argini creati dal pensiero liberale. In questo senso il modernismo reazionario è una costruzione che, usando un termine di Max Weber, potremmo definire ideal-tipica. Non si tratta di un movimento autocosciente; eppure la sua esistenza può essere ricostruita ponendo mano all’analisi delle opere dei principali esponenti nazionalisti tedeschi del secolo scorso.
Reazione politica e progresso scientifico-tecnologico, che a prima vista potrebbero sembrare antitetici, furono quindi riconciliati in nome del superiore interesse nazionale e della volontà di rivincita dopo la sconfitta subita nel primo conflitto mondiale. I modernisti tedeschi, in altre parole, insegnarono alla destra tedesca a parlare di tecnologia e di cultura allo stesso tempo, laddove per i tradizionalisti questi due termini erano tra loro alternativi. Il tradizionale anticapitalismo romantico della destra fu depurato dalle nostalgie per un tipo di società arcaica e contadina, e l’ordine nuovo da costruire venne identificato con il concetto di nazione unita e tecnologicamente avanzata.
Accanto a intellettuali notissimi quali Carl Schmitt, Ernst Jünger e Oswald Spengler, il movimento si nutrì dei contributi teorici di una larga schiera di ingegneri i quali concepivano la loro professione in termini non meramente tecnici, e che intendevano porre al servizio della nazione la propria naturale competenza in materia di tecnologia. A tutti – umanisti e ingegneri – materialismo borghese e collettivismo marxista apparvero come due facce della stessa medaglia, e cioè immagini speculari di un mondo senz’anima, mentre la conciliazione tra tecnica e spirito divenne un’esigenza primaria. Dal punto di vista politico, l’intelaiatura fu fornita da Schmitt, il quale riteneva che lo Stato autoritario, reso più forte dalla tecnologia avanzata, fosse in grado di ristabilire il dinamismo politico di una società burocratizzata come quella di Weimar.
Più noto, ma certamente non meno significativo, è il caso sovietico. Durante una cena riservata tenutasi nell’ottobre del 1932 Stalin, parlando a un gruppo di scrittori riuniti in casa di Maksim Gork’ij, disse: “I nostri carri armati non valgono niente, se le anime che devono guidarli sono di argilla. L’uomo è trasformato dalla vita e voi dovete aiutarlo nella trasformazione della sua anima. Siate ingegneri di anime!”. Un’intera generazione di scrittori pagò il suo tributo a dighe e canali, poiché secondo quella concezione del mondo tecnologia e scienza erano destinate ad aprire le porte del futuro.
E’ tuttavia necessario notare che non esiste una scienza e una tecnica italiana, europea o americana, ma una scienza e una tecnica tout court. Scienza e tecnica, in altri termini, sono potenti strumenti di superamento delle barriere politiche, linguistiche e razziali. Si tratta di cultura cosmopolita per eccellenza. La scienza è dunque tentativo costante di conoscere oggettivamente il mondo, e ciò nulla ha a che fare con le differenze politiche, etniche o religiose.
Proprio per questo chi si colloca nell’alveo del pensiero liberale deve capire che la diffusione della tecnologia non toglie spazio all’umanesimo, a differenza di quanto sostengono alcuni celebri filosofi come Martin Heidegger. Al contrario, l’applicazione della tecnologia informatica alle discipline umanistiche sta diventando un campo sempre più sfruttato e studiato. La tecnologia ha reso la comunicazione più facile anche per gli umanisti, e il pessimismo circa lo sviluppo e la diffusione della tecnologia è pertanto ingiustificato.