E se l’Ossezia fosse come il Kosovo e la Russia non fosse il gigante cattivo?

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E se l’Ossezia fosse come il Kosovo e la Russia non fosse il gigante cattivo?

12 Agosto 2008

Per quanto appaia irresistibile in Occidente la tentazione di leggere il catastrofico conflitto russo-georgiano con manichea semplicità – la consueta immagine un po’ sentimentale, e un po’ volutamente fasulla, del  piccolo Stato minacciato dal gigante cattivo – in realtà non tutte le vittime di questa strana guerra, che dopo molti anni di progressi e insperata pace investe due importanti repubbliche dello spazio ex sovietico, sono così ovvie.

 La prima di certo lo è: la popolazione civile dell’Ossezia del Sud. C’è poco da gridare all’aggressione russa. L’abbraccio con cui l’Occidente ha accolto le nuove leadership delle “rivoluzioni delle rose” ha sottovalutato un dettaglio. Che filo-occidentali queste leadership lo sono, ma per una ragione – il nazionalismo associato al sentimeno antirusso. Quel nazionalismo che in questi giorni ha spinto la Georgia ad attaccare una repubblica che soltanto nominalmente è parte del territorio georigano, e che la storia recente ha reso autonoma, se non indipendente.  Non v’è differenza tra il Kosovo e l’Ossezia del sud. E la Georgia veste i panni che vestiva, ai tempi della crisi del Kosovo, la Serbia. Né più, né meno. È lo stato nazionalista che non intende lasciar andare una fetta di territorio e la invade, manu militari, ignorando la richiesta di indipendenza che un popolo differente ha espresso già da tempo. E se proprio non vogliamo considerare la Russia – per esperienza accumulata, per antipatia viscerale, per pregiudizio, per comodità politica e anche un po’ per nostra ipocrisia – come la Nato  nel caso del Kosovo, almeno dovremmo attendere il risultato dell’intervento russo, per capire se davvero Mosca stia facendo la guerra alla Georgia per motivi imperialistici – cosa molto difficile da credere – o se si accontenterà, come afferma, di ripristinare lo status quo ante. Certo la guerra è crudele. Ma forse abbiamo dimenticato le bombe – le nostre –  su Belgrado, e la devastazione che causarono allora.  

Ma v’è anche una seconda vittima, meno scontata ma certamente illustre. È la storia antica e feconda che molti cittadini comuni hanno intessuto e coltivato, rendendola una storia russo-georgiana. Non si tratta della retorica squisitamente sovietica della pace tra i popoli. Si tratta piuttosto della vita quotidiana di un impero che era anche un formidabile melting pot, in cui molte diverse nazionalità hanno dato vita, insieme, a forme di convivenza culturalmente valide e umanamente ricche, che al di là della vacua propaganda ufficiale uniscono ancora, a distanza di molti anni, russi e ucraini e bielorussi e baltici e georgiani.

Oltre che per la tragedia umana, quindi, questa guerra tra popoli che hanno condiviso così tanto è particolarmente triste. Triste, e malinconica, come le note di quella vecchia ballata sovietica che cantava di un tram moscovita dell’ultima ora della notte. Lo cantava con la voce mesta e intenerita di un celebre bardo, capace di osservare la vita, la gente, la quotidianità. Quel poeta e cantore fu uno dei creatori di un genere musicale – la ballate d’autore – che ha segnato la storia sociale e culturale sovietica in modo profondo, accompagnandone gli eventi ed esprimendone gli umori e le emozioni.  Bulat Okudjava era georgiano. E cantava di Mosca,  sua città natale. Su quel suo ultimo tram, oggi, la musica non sembra suonar più.