E se non fosse tutta colpa della globalizzazione?

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E se non fosse tutta colpa della globalizzazione?

16 Dicembre 2007

Non occorrono molte spiegazioni per comprendere i motivi  dell’ultimo libro di Marco Revelli, Sinistra Destra. L’identità smarrita (Laterza, Roma-Bari, 2007): li troviamo sui giornali ogni giorno, ogni volta che ci chiediamo perché il governo di centro-sinistra non “dice qualcosa di sinistra”, quando osserviamo inedite convergenze, quando – nel dibattito su una questione spinosa – non riusciamo più a identificare le posizioni di destra e quelle di sinistra. Destra e sinistra: si tratta di un tema che attrae periodicamente l’attenzione di sociologi dei fenomeni politici, politologi, scienziati e storici della politica. L’ultimo tentativo di un certo peso fu quel libriccino intitolato Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica (Donzelli, Roma) che Norberto Bobbio gli dedicò nel 1994. Ed è proprio a quel tentativo, di grande successo fra i lettori, che Revelli si rifà spesso in mezzo al nugolo di interpretazioni, tipologie e classificazioni che elabora e alle quali fa riferimento.

Revelli parte da una constatazione: si può discutere fin che si vuole sulla liceità e sulle giustificazioni di una concezione assiale (cioè divisa fra destra e sinistra) della politica, ma è evidente che quella distinzione nel corso degli ultimi anni si è appannata fino a svanire del tutto. E’ infatti sull’”identità smarrita”, come recita il titolo, che l’autore invita a riflettere.

Quello che invece richiede qualche spiegazione è perché Revelli attribuisca tale smarrimento delle identità di sinistra e di destra (che in parte saluta come un inevitabile segno dei tempi e in parte lamenta rimpiangendo antiche e chiare distinzioni) alla globalizzazione e alle sue conseguenze, come fa soprattutto nella parte finale dell’opera: qui abbandona Bobbio per un altro maestro di pensiero più utile a comprendere le trasformazioni attuali della società e della politica, e trova in Zygmunt Bauman la bussola per orientarsi nel mondo di oggi. Quello a cui fa riferimento è  soprattutto il Bauman interprete della globalizzazione: quello che ha indicato nelle figure del turista e del migrante i due modi opposti di vivere la globalizzazione a seconda che si sia ricchi o poveri e che si riesca quindi a usufruire delle eccezionali opportunità dell’unificazione del mondo ovvero che se ne sia travolti e abbandonati a solitudini sempre più locali.

Il vecchio maestro e quello nuovo sono però legati da un punto comune: entrambi vedono nell’alternativa uguaglianza/disuguaglianza il punto cruciale per una politica di sinistra o di destra, per una vita da turista o da migrante. Bobbio infatti aveva fatto, proprio nel pamphlet citato, della ricerca dell’uguaglianza il tratto distintivo della sinistra sia dal punto di vista di una ontologia dell’umanità sia dal punto di vista delle politiche da mettere in atto: la sinistra nella sua concezione si distingueva infatti per l’idea che tutti gli uomini sono uguali (o comunque che gli elementi di uguaglianza fra loro prevalgono su quelli di disuguaglianza) e per il tentativo pratico di tradurre in governo e leggi quell’idea, ovvero di porre quanto più possibile gli uomini in condizioni di uguaglianza. Bauman, da parte sua, ritiene che nel mondo della globalizzazione la disuguaglianza venga accentuata fino a spezzare le unità politiche che lo costituiscono: mentre gli Stati nazionali sono esautorati dalle reti mondiali, ricchi e poveri non appartengono più a una patria comune, anche se unificata.

Molte sono state le obiezioni mosse all’interpretazione bobbiana: uguaglianza fra chi, uguaglianza di che cosa? Gli si è rimproverato di restare a una concezione vecchia e ormai superata della distinzione destra/sinistra e di non saper riconoscere che la nuova differenza fra le due parti oggi deve essere ricondotta piuttosto alla differenza tra un atteggiamento di inclusione o di esclusione. Comunque sia, per Bobbio la distinzione era utile concettualmente ed era presente nella realtà politica: i suoi avversari ideali erano proprio coloro che la dichiaravano insussistente, superata, inutile.

Per Revelli, invece, tutto viene rimesso in questione dalla globalizzazione, della quale dà una lettura altamente drammatica: “un paesaggio sociale terremotato, sempre più solcato da flussi e sempre meno strutturato in luoghi, dunque mobile e incerto (..), ‘lavorato’ dalle tecnologie della comunicazione istantanea fino a perdere il senso delle rispettive collocazioni, l’ordine garantito dalla distanza e dalla contiguità, sostituito dalla commistione tra i distanti, dalla compresenza degli altrove.” Poiché destra e sinistra sono luoghi simbolici dello spazio politico, la labilità dei luoghi e la loro trasformazione nei ‘non-luoghi’ post-moderni comporta che anche destra e sinistra vengano travolte e non si ritrovino più, nella confusione spaziale, nella compresenza di vicino e lontano, nella mistura delle culture. Dove trovare le proprie radici se non vi sono più luoghi “sicuri” nei quali radicarsi?

Questa eclisse della distinzione destra/sinistra manifesta per l’autore una crisi maggiore, dalla quale essa deriva: il “male oscuro che corrode dall’interno quello che potremmo chiamare il ‘paradigma politico della modernità’”. A lamentare la crisi, la fine, la catastrofe, della modernità, Revelli non è il primo né il solo, ma di peso (come per tutti gli altri che lo fanno) sono le conseguenze che trae: a partire dalla scomparsa dell’alternativa tra violenza e non violenza come mezzi dell’azione politica. Dal momento che la modernità si identifica con la politica, a essere in crisi non è altro che la politica stessa, e sempre per lo stesso motivo:  “Se, infatti, ciò che cade con la globalizzazione è lo spazio pubblico tutto intero (..), allora è davvero la politica in quanto tale ad aver perduto il proprio supporto materiale.” La prova starebbe nel blocco – nella globalizzazione – della spinta verso l’uguaglianza (ecco che torna il vecchio maestro, insieme al nuovo) che aveva caratterizzato la modernità. Nutriamo dubbi su entrambe le affermazioni di Revelli: che la caratteristica della modernità sia stata la spinta all’eguaglianza, e che la tendenza della post-modernità sia la progressiva scomparsa dell’uguaglianza formale. Al suo posto starebbe una oligarchia staccata da appartenenze territoriali e non controllata dalle democrazie ancora formalmente in vita.

Se oggi vigono l’”entropia della rappresentanza” e la trasformazione dello spazio pubblico in spazio mediatico, la ragione è la stessa: “si scioglie la materialità dei luoghi nell’astrattezza della rappresentazione mediatica” (qui Manuel Castells e Guy Debord si aggiungono a supportare l’indagine). Nel mondo senza spazio pubblico (perché senza spazio tout court), l’emancipazione è impossibile e solo l’alienazione è certa. Ci chiediamo che cosa accadrebbe in questa visione cupissima se al posto di quelli utilizzati si cercassero altri maestri, e forse varrebbe la pena di farlo.