E se sulle pensioni la risolvessimo così?

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E se sulle pensioni la risolvessimo così?

12 Novembre 2021

Puntualmente, come era prevedibile, il tema delle pensioni è tornato al centro della politica italiana. Sono quasi trent’anni che la riforma del sistema pensionistico è una delle questioni essenziali attorno alla quale si sviluppa il confronto fra i partiti e il Governo. Dal 1992 ci hanno provato Giuliano Amato, Lamberto Dini, Romano Prodi, Roberto Maroni e, fino al 2011, si possono contare 28 interventi legislativi sulla materia.

Nel 2011, nel pieno di una tempesta finanziaria che rischiava di far saltare il Paese, il Governo Monti, nell’ambito di un decreto evocativamente chiamato “Salva Italia”, varò la famigerata riforma Fornero che sembrava finalmente essere in grado di dare un asserro stabile al nostro sistema pensionistico superando le gravi storture che presentava dalla viglia di Natale del 1973 quando il governo Rumor adottò una nuova disciplina che inaugurava le famigerate baby-pensioni (i 14 anni 6 mesi e un giorno di contributi che erano sufficienti per poter finalmente andare in quiescenza).

Dopo alcuni interventi minori che hanno allentato alcune regole della riforma Fornero (in particolare è stata soppressa la decurtazione dell’1%-2% per le pensioni anticipate), si è arrivati infine a quota 100, uno dei frutti peggiori dell’alleanza fra sovranisti e populisti che ha governato l’Italia per 25 mesi fra il 2018 e il 2019. Ma quota 100 era strutturata come intervento transitorio, con una vigenza per poco più di due anni che sarebbe arrivata a scadenza alla fine del 2021. Ed ecco quindi che siamo di nuovo al dilemma tragico circa il futuro delle nostre pensioni: tornare alla Fornero o immaginare un nuovo sistema?

In particolare, il totem attorno al quale gira tutto il confronto politico è quello dell’età pensionabile, ovvero la definizione della soglia anagrafica superata la quale io posso (pensioni di anzianità) o devo (pensioni di vecchiaia) andare in pensione. Si tratta evidentemente di un tratto decisivo per un sistema pensionistico, un tratto che alla luce delle variabili significative del sistema (gli andamenti demografici e occupazionali e l’aspettativa di vita) determina la sua sostenibilità finanziaria. Ma siamo davvero certi che da questo nodo gordiano non sia in alcun modo possibile sottrarsi? E’ da tempo che ci frulla in testa un’idea che può apparire folle ma che, se adeguatamente tradotta in pratica, potrebbe rivelarsi decisiva.

L’idea è quella di abolire il concetto stesso di età pensionabile e di costruire un sistema pensionistico nel quale ciascuno potrebbe decidere liberamente a partire da quando collocarsi in pensione. Naturalmente, per garantire la sostenibilità del sistema e per disincentivare una corsa al pensionamento precoce, il tutto sarebbe completato da un meccanismo di calcolo del trattamento di pensione che sconta non solo l’anzianità contributiva e l’ammontare dei contributi versati ma anche la presumibile durata del periodo per il quale la pensione sarà erogata.

E’ del tutto evidente che le due situazioni di Mario che va in pensione a 51 anni con 35 anni di contributi e di Giuseppe che va in pensione a 67 anni con gli stessi 35 anni di contributi sono assolutamente differenti dal punto di vista finanziario. Considerato che l’aspettativa di vita in Italia è pari ad 83 anni (80.9 per gli uomini e 84.9 per le donne), Mario godrà della pensione per 32 anni mentre Giuseppe ne godrà per 16 anni, ovverosia per un periodo pari alla metà di quello di Mario. Ed è totalmente insensato che il regime previdenziale sia del tutto indifferente rispetto a questo dato che determina in modo decisivo l’onerosità delle prestazioni.

Da questo punto di vista si potrebbe immaginare un sistema in cui a fronte della “liberalizzazione” dell’età pensionabile si introducesse un procedimento di calcolo della prestazione in concreto dovuta attraverso un meccanismo attuariale che consideri anche la presumibile durata della stessa utilizzando il parametro dell’aspettativa di vita (aggiornato periodicamente dall’ISTAT). Per cui se desidero smettere presto di lavorare e godere della pensione per 32 anni (ammesso che io sopravviva esattamente fino all’età dell’aspettativa media di vita) avrò – per tutto il periodo – un assegno pari alla metà di quello di cui avrei goduto se fossi andato in pensioni 16 anni più tardi. Anzi, un assegno pari ad un po’ meno della metà considerato che nel calcolo occorre considerare anche il costo connesso all’anticipo temporale della fruizione di una parte della prestazione.

Naturalmente un modello del genere sarebbe perfetto se il nostro sistema pensionistico fosse a capitalizzazione ovvero prevedesse che all’erogazione della mia pensione si provveda utilizzando proprio i contributi che ho versato oltre i frutti che gli stessi investiti dall’ente previdenziale hanno generato. Ma la transizione da un sistema a ripartizione ad uno a capitalizzazione è del tutto insostenibile dal punto di vista finanziario. Ci risulta che l’unico paese ad esserci riuscito è il Cile, con la riforma del 1980 voluta da Pinochet con la regia di Milton Friedman. Ma Pinochet non aveva certo grossi problemi di consenso democratico!

Il nostro sistema è invece a ripartizione, ovvero utilizza i contributi dei futuri pensionati per pagare i trattamenti degli attuali pensionati. Si potrebbe immaginare che un sistema come quello delineato correrebbe il rischio del collasso di fronte ad un accesso in massa alla pensione in età ancora giovane. Si tratta però di un rischio abbastanza remoto poiché le forti penalizzazioni collegate al ricalcolo in base all’aspettativa di vita rappresenterebbero il miglior disincentivo al pensionamento anticipato. La legge Fornero aveva introdotto una timida penalizzazione (l’1% o il 2%) per coloro che accedevano alla pensione anticipatamente. La penalizzazione è stata nel frattempo abolita. Con il sistema qui delineato la penalizzazione sarebbe di tutt’altra dimensione, raggiungendo il 50% e anche di più nei casi più estremi.

Ma al di là dei dettagli tecnici di questo modello pensionistico, quello che ci affascina di questa proposta immaginifica e quasi onirica è l’enorme progresso in termini di cultura politica che determinerebbe. Il sistema da un lato implicherebbe una poderosa affermazione della centralità dell’individuo e delle sue libere scelte rispetto ad una vicenda – la pensione – che ha enorme rilevanza nella vita di ciascuno di noi. Dall’altro accompagnerebbe tale scelta del singolo individuo con la doverosa considerazione della sostenibilità economica che sempre condiziona le nostre scelte.

Sarebbe al tempo stesso il rigetto del paternalismo di Stato, che si arroga il diritto di decidere cosa sia meglio per ciascuno di noi, e dell’individualismo egoista, che si limita a reclamare diritti senza farsi carico della compatibilità con i diritti e gli interessi degli altri componenti della nostra comunità.