E’ un errore parlare di silenzio dei liberali antifascisti sulle leggi razziali

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E’ un errore parlare di silenzio dei liberali antifascisti sulle leggi razziali

24 Gennaio 2010

Leggo sempre con interesse gli interventi di Pierluigi Battista e – devo dire – sono sovente d’accordo con la sua analisi delle vicende politico-intellettuali del nostro paese. Mi ritrovo così anche in molte delle brevi dichiarazioni rilasciate a Maurizio Crippa e pubblicate sul «Foglio» del 19 gennaio riguardanti i pretesi “silenzi” di Pio XII, ma su una questione credo necessaria una precisazione. Ricordando polemicamente il «silenzio degli altri», Battista punta il dito contro alcuni leader dell’antifascismo liberale: «Il punto fondamentale è il 1938. Né Croce, né Einaudi, né De Nicola, senatori del regno d’Italia, si presentarono in aula quel 20 dicembre 1938 in cui si approvarono le leggi razziali. Disertarono la seduta». Non è buon metodo, credo, per superare un errore (la demonizzazione di Pio XII), introdurne altri: vediamo perché.

Per tutti gli anni Venti era esistita un’opposizione legale in Senato: era costituita da senatori, in genere liberali o ex popolari, nominati prima della marcia su Roma (allora i senatori erano tutti di nomina regia e la nomina era a vita). Così nei dibattiti sulle “leggi fascistissime”, dal 1926 al 1928, si erano avuti discorsi di opposizione e – negli scrutini – anche voti contrari. Nella votazione del 12 maggio 1928 sulla nuova legge elettorale i no erano stati quarantasei; in quella del 15 novembre 1928 sulle attribuzioni del Gran Consiglio del fascismo, diciannove. I voti contrari si ridussero a sei nello scrutinio del 25 maggio 1929 sulla ratifica dei patti lateranensi: come credo di aver dimostrato in un mio lavoro recente, tale diminuzione derivò non solo dallo sbriciolarsi dell’opposizione, ma anche dal fatto che non pochi degli oppositori erano sostanzialmente favorevoli alla Conciliazione e preferirono non essere presenti piuttosto che votare una legge del governo Mussolini. In quella discussione – è noto – intervenne Croce con un discorso di opposizione. Quella fu l’ultima occasione che la sua voce risuonò nel Senato fascistizzato: per tutti gli anni Trenta non si ebbero ulteriori fenomeni di opposizione, né in interventi espliciti, né nelle votazioni. Non escludo (bisognerebbe verificare con cura) che su singoli provvedimenti si siano avuti alcuni voti negativi, ma non erano espressione di un’opposizione sistematica: i senatori antifascisti cominciarono insomma a disertare l’aula del Senato, pur continuando a frequentare la buvette e soprattutto la biblioteca.

Fecero per viltà questo rifiuto? La loro assenza dall’aula di palazzo Madama derivava in realtà  da un preciso giudizio politico: quell’assemblea   “fascistizzata” e quasi “militarizzata” era impossibile una qualsiasi dialettica politica, quale ancora si era avuta, sia pure a fatica, nella seconda metà degli anni Venti. Mentre per l’innanzi era stata proverbiale la compostezza di questa assemblea formata per lo più da uomini molto anziani (magari era stata oggetto anche di qualche ironia), già il discorso di opposizione di Croce ai patti lateranensi era stato invece continuamente interrotto e subissato dai rumori dell’aula, tanto che il filosofo aveva giudicato un successo poterlo portare a termine.

Nel suo libro del 2002 "Il totalitarismo alla conquista della Camera alta", Emilio Gentile ha puntualmente scandito questo processo che si snoda dopo il 1925, ma prima di lui, in un saggio di estremo interesse pubblicato sulla «Nuova antologia» del febbraio 1956 ("Ricordi e divagazioni sul Senato vitalizio"), lo aveva già fatto Luigi Einaudi: si cominciò a intervenire pesantemente sul funzionamento degli “uffici” (le commissioni elette volta per volta per riferire dei singoli disegni di legge), poi diventarono continui  gli “ordini di scuderia” per pilotare le discussioni, si “ripulì” dagli oppositori la commissione permanente di finanza, la convalida dei senatori nominati non avvenne più a scrutinio segreto da parte dell’assemblea, ma nella commissione per la convalida dei titoli, riempita di senatori ligi alla volontà di Mussolini. Furono messe in atto vere e proprie intimidazioni ai pochissimi senatori non allineati: Einaudi ricorda quelle indirizzate contro lo storico Ettore Ciccotti, che aveva proposto di destinare le somme previste per un monumento funebre al quadrumviro Michele Bianchi alla costruzione di una scuola o di un ospedale in Calabria: «da quel giorno – scrive – Ciccotti non fu più visto nell’aula, a tacita protesta contro il sopruso patito».

Fu in questo contesto che si giunse alla “discussione” (le virgolette sono d’obbligo, come vedremo) sulle leggi razziali. Esse furono emanate con una serie di decreti legge, che, allora come oggi, andavano convertiti in legge: dopo l’approvazione della Camera, furono così presentati anche al Senato il 20 dicembre 1938. La procedura che allora si seguì è caratteristica della prassi parlamentare cui si era arrivati: i cinque decreti “razziali” (istituzione del consiglio superiore della demografia e della razza, provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista, istituzioni di scuole elementari per fanciulli di razza ebraica, integrazione e coordinamento in unico testo delle norme emanate in difesa della razza nella scuola italiana, provvedimenti per la difesa della razza italiana) furono inseriti all’interno di una lunga lista di altri decreti (in totale trentadue), di cui uno istituiva il monopolio statale delle banane, un altro regolava la discoteca di stato e così via: «le sedute pubbliche – ricorda ancora Einaudi – consistevano nella sfilata rituale dei senatori dinnanzi a dieci e fin venti urne dove gettare le palle bianche e nere». 

Così avvenne anche quel giorno: «E’ aperta la discussione su questo disegno di legge», dichiarava il presidente Federzoni, per poi aggiungere puntualmente: «Nessuno chiedendo di parlare, la dichiaro chiusa. Il disegno di legge sarà poi votato a scrutinio segreto». Si ebbe un solo intervento e fu sul decreto legge recante provvedimenti per la difesa della razza italiana: lo pronunciò il vecchio senatore clerico-fascista  Filippo Crispolti. Nel mentre dichiarava il suo voto a favore dei provvedimenti razziali, cercò in tutti i modi attenuarne la portata: raccomandava di allargare i casi di “discriminazione” (gli ebrei che per meriti speciali potevano essere esclusi dai divieti relativi alla proprietà e alle gestioni economiche), di scoraggiare «coloro che con iniziative private o di stampa o di associazioni libere, per attuar misure non contemplate dalla legge, cercano di inacerbire la lotta col fare oggetto alcuni ebrei di certe asprezze e umiliazioni, sia pure a colpi di spillo; cosicché mentre il complesso dei decreti è un quadro di precauzioni, la cornice arbitraria, di cui talvolta e qua e là un tal quadro viene involto, minaccia di dargli l’aspetto di una qualche persecuzione». Crispolti se la prendeva con la lobby antisemita interna al fascismo e al suo antisemitismo ideologico, che rischiava – così argomentava – di dare un contenuto persecutorio a quelle disposizioni che invece  – a suo giudizio –  costituivano solo «un quadro di precauzioni». E infatti polemizzava subito contro gli «zelanti, dei quali non posso tacere il mio profondo aborrimento in ogni campo, perché gli zelanti sono la peste di ogni causa, sia per entusiasmo puro ma sfrenato, sia per calcolo segreto di migliorare così la propria fortuna, sia finalmente per una vanità congenita che li butta a tutti i modi per farsi belli cacciandosi avanti». Significativa infine – vista la personalità e la storia di Crispolti – era la conclusione del discorso: l’auspicio che «nella legislazione matrimoniale» si evitasse «ogni scalfittura al monumentale Patto Lateranense», che cioè si tenessero nel dovuto conto le obiezioni della Santa Sede sul famoso vulnus operato dalle leggi razziali in materia concordataria (soprattutto per il divieto dei matrimoni misti). 

Si arrivò dunque alla votazione che avvenne per scrutinio segreto. Presenti e votanti 164 senatori: sui cinque decreti razziali si ebbe un’opposizione costante di nove senatori che votarono contro, dieci su quello più generale recante provvedimenti in difesa della razza italiana, mentre sugli altri essa si ridusse a tre o quattro no. Dopo quasi dieci anni, dunque, una sia pur esigua opposizione si riaffacciava in Senato e – vista la natura dei provvedimenti – non è un fatto del tutto trascurabile. Ma a chi appartenevano quei voti negativi? Il resoconto della seduta riporta il nome dei votanti e quindi possiamo fare qualche ipotesi. 

Un appunto del febbraio 1940 pubblicato ancora da Emilio Gentile elenca i senatori che dalla presidenza del Senato erano giudicati antifascisti «irriducibili»: ebbene di costoro solo uno  (l’ex ministro di Bonomi, Eugenio Bergamasco) partecipò alla votazione del 20 dicembre 1938 e con tutta probabilità votò no. Gli altri (fra cui Croce, Albertini, Bergamini, Casati) continuarono – ne abbiamo visto i motivi – a disertare l’aula: Carlo Sforza era in esilio.

E Luigi Einaudi? «Dopo il 1922 – avrebbe poi ricordato – la mia frequenza a Palazzo Madama si diradò a poco a poco, per annullarsi quasi completamente; talché quando un giorno andai a sedere al mio posto […] il vicino, non conoscendomi, in segno di gentilezza mi confortò: “Lei può star tranquillamente seduto, perché il titolare del posto non viene mai!»: così era stato assente sia nella votazione del 1928 sul Gran Consiglio, sia in quella sui patti lateranensi. Ma alla votazione sulle leggi razziali – contrariamente a quanto scrive Battista – Einaudi volle partecipare e questa sua presenza è prova di una volontà precisa: esserci per votare contro. Gli altri no furono con tutta probabilità di senatori non iscritti al PNF e all’UNFS (Unione nazionale fascista del Senato): i nittiani Giovanni Ciraolo e Ugo Da Como, il vecchio generale Alfredo Dallolio, l’ex ambasciatore Guglielmo Imperiali. Forse anche il generale fiorentino Guglielmo Pecori Giraldi e il diplomatico genovese Giuseppe Salvago Raggi,  anche se avevano fama di essere sostanzialmente favorevoli al regime. Per molti di loro si deve ripetere lo stesso discorso fatto per Einaudi: Da Como e Bergamasco non frequentavano mai il Senato (erano molto anziani), ma pure, quel giorno, vollero essere presenti.

Presenti e votanti anche studiosi del calibro di Vittorio Cian, Luigi Credaro, Giovanni Gentile, Pier Silverio Leicht, Santi Romano, Francesco Scaduto, Antonio Scialoja: la legge dei numeri impone di credere che sostanzialmente tutti (o quasi) abbiano votato a favore della legislazione razziale.

E’ il caso di aggiungere (e del resto lo accenna anche Battista) che Croce, anche se non ritenne opportuno interrompere la sua polemica assenza nemmeno in occasione della votazione del 20 dicembre 1938, fu tuttavia il solo intellettuale italiano che fece dichiarazioni pubbliche di opposizione alle leggi razziali: ovviamente all’estero, perché in Italia (delle volte sembra che lo si dimentichi) non si godeva della libertà di stampa e di espressione! Il 5 agosto 1938, da Pollone dove trascorreva le vacanze, scrisse al rettore svedese J. Hammer  una lettera sulla persecuzione degli ebrei:

«Disgraziatamente, ora anche in Italia è stata, a un tratto, iniziata un’azione razzistica e antiebraica, che non si sa ancora quali forme assumerà, ma che voglio augurarmi che non sia per essere duratura. In Italia non vi è mai stato antisemitismo, e l’elemento ebraico cooperò per la sua parte al Risorgimento nazionale». Quando nel dicembre successivo la lettera fu pubblicata sui giornali svedesi, se ne ebbe notizia anche in Italia  e prontamente fu scatenata una campagna di stampa contro il «giudeo onorario Benedetto Croce», come lo apostrofò un giornale di Catanzaro, contro il suo «chassidismo» (così «Il Tevere» di Roma), il suo «pietismo» («La Stampa» di Torino). Ma tutta la sua produzione scientifica di quegli anni è costellata da riferimenti e allusioni continue alla questione ebraica: questo era il solo modo per parlare al pubblico italiano.

Altrettanto può dirsi di altri, come – per esempio – ancora Ettore Ciccotti, che sarebbe morto il 20 maggio 1939. Pochi giorni prima di spegnersi, preannunziava a Corrado Barbagallo l’invio di un articolo per la «Nuova rivista storica» su Le origini di Orazio. Nella società venosina, – argomentava il vecchio storico – nell’ambiente umile e servile da cui proveniva Orazio era molto diffuso l’elemento ebraico: che anche il poeta (di cui il regime aveva fastosamente celebrato il bimillenario della nascita nel 1936) avesse sangue semita?   

Il saggio – ovviamente – sarebbe stato pubblicato solo a guerra finita.