E’ una falsa notizia dire che il G20 ha tracciato la black list dei paradisi fiscali

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E’ una falsa notizia dire che il G20 ha tracciato la black list dei paradisi fiscali

E’ una falsa notizia dire che il G20 ha tracciato la black list dei paradisi fiscali

03 Aprile 2009

È una notizia per modo dire, quella che il G20 ha stabilito una lista nera dei Paradisi Fiscali. “L’era del segreto è finita” ha annunciato trionfante il sottosegretario britannico al Tesoro Stephen Timms, ma in concreto da una parte le sanzioni ai Paesi che non si adegueranno ai nuovi regolamenti sulla trasparenza finanziaria decisi a Londra sono state solo minacciate: in concreto, non si sa neanche esattamente in che cosa consisteranno. Dall’altra parte, la lista nera non è stata fatta neanche dal G20, ma è stata demandata all’Ocse. Ed è qui la non notizia: in realtà questa lista l’Ocse l’aveva già da tempo, e da tempo aveva pure stabilito i criteri per esservi inclusi: imposte insignificanti o addirittura inesistenti; l’assenza di trasparenza sul regime fiscale; la non disponibilità a passare informazioni di natura fiscale a altri Paesi; l’attrarre società paravento aventi un’attività fittizia. E in base a questi criteri era già stata individuata da tempo una quarantina di nomi. L’Ocse, quindi, a richiesta del G-20 questa lista non ha fatto che aggiornarla. Paradossalmente, è stata anche resa meno severa, visto che i gradi di “colpevolezza” sono stati scaglionati su tre livelli diversi. Tra i cattivissimi, la lista nera vera e propria, sono rimasti infatti solo in quattro: due stati latino-americani, la Costa Rica e l’Uruguay; uno asiatico, le Filippine; e un territorio malaysiano, la salgariana isola di Labuan. Tutti si sarebbero rifiutati di rispettare le nuove regole internazionali in materia fiscale, anche se il presidente della banca centrale dell’Uruguay Mario Bergera ha subito protestato. Già dal 2007, ha spiegato, il presidente Tabaré Vázquez ha promosso una riforma fiscale che non solo ha per la prima volta introdotto imposte personali, ma avrebbe anche disposto norme servere in materia di supervisione e di regolazione. Il problema è che, evidentemente, l’Ocse non ne è stata persuasa. 

La seconda lista è invece “grigia”: Paesi che non stanno rispettando le nuove norme, ma si sarebbero impegnate a farlo. E qui abbiamo ben 38 nomi: non bocciati ma, per così dire, rimandati a settembre. Ben 22 di questi 38 sono pezzi o ex-pezzi di quello che una volta si chiamava Impero Britannico, a confermare un sistema di sinergie cui la City di Londra non è evidentemente del tutto estranea. Ben sette, anzi, sono tuttora Territori Britannici d’Oltremare, secondo la terminologia introdotta dal Regno Unito per le sue ex-colonie con la legge del 2002: Anguilla, Cayman, Isole Vergini Britanniche, Montserrat e Tuks e Caicos nei Caraibi; le Bermuda nell’Atlantico; Gibilterra in Europa. Altre sette sono stati indipendenti del Commonwealth con ancora la regina Elisabetta II come capo dello Stato: Antigua e Barbuda, Grenada, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia e Saint Vincent e Grenadine nei Caraibi; Bahamas nell’Atlantico e Belize in America centrale. Cook e Niue, Oceania, sono stati liberamente associati alla Nuova Zelanda, che ha pure la Regina Elisabetta come capo dello Stato. Brunei e Singapore in Asia come Nauru, Samoa e Vanuatu in Oceania sono pure membri del Commonwealth. E c’è il Bahrein, nel Golfo Persico, che è ex-protettorato britannico pur senza far parte del Commonwealth. In questa zona grigia ci sono poi tre membri dell’Unione Europea: Austria, Belgio e Lussemburgo. Due territori autonomi di un altro stato Ue, i Paesi Bassi: Aruba e Antille Olandesi. Tre staterelli europei a vario titolo infilati nella compagine dell’Ue al punto da aver adottato l’euro: Andorra, Monaco e San Marino. La Svizzera più un quarto microstato con essa in unione doganale, il Liechtenstein. Quattro Paesi latino-americani: Guatemala, Panama, Repubblica Dominicana e Panama. Più la Liberia in Africa e le Marshall in Oceania. 

L’adeguamento non è stato evidentemente indolore. Una recentissima mazzata si era ad esempio abbattuta su Turks e Caicos, di cui il premier britannico Gordon Brown ha annunciato il commissariamento del governo autonomo dopo la pubblicazione di un rapporto che parlava di “corruzione galoppante”. “Chiari segni di amoralità politica e immaturità e più generale incompetenza amministrativa hanno dimostrato la necessità di sospendere la Costituzione in toto o in parte”, dice senza mezzi termini il documento. Traduzione: la riluttanza dello stesso governo autonomo a mettersi con le carte in regola sul fronte della trasparenza fiscale. Montserrat era già uscita sostanzialmente di scena già nel 1995 per colpa della micidiale eruzione vulcanica che la devastò. Nel 2006 Gibilterra, nel 2008 Antille Olandesi e anche l’Isola di Man, quest’ultima Dipendenza della corona britannica nel Mare d’Irlanda, hanno adattato le loro legislazioni alle esigenze dell’Unione Europea. Sempre nel 2008 Vanuatu ha a sua volta dichiarato di voler fare tutte le riforme necessarie per non essere più considerata un paradiso fiscale. Chi non si è piegato con le buone, è stato affrontato con le cattive: pressione dell’Ocse su Andorra, Liechtenstein e Monaco nel 2007; richiesta di Germania e Francia alla stessa di Ocse di aggiungere alla lista nera la Svizzera nel 2008; azione dei servizi segreti tedeschi in Liechtenstein nel 2008; infine, il documento del Parlamento Europeo che vieta i rapporti con i Paradisi fiscali dichiarati fuorilegge. Lo stesso Liechtenstein, come d’altronde Monaco e San Marino, si sono dunque tutti impegnati a conciliare il segreto bancario con l’esigenza di non proteggere più i reati. Mentre Andorra ha addirittura promesso che entro novembre il segreto bancario lo abolirà del tutto. Ci sono però anche Lussemburgo che ora per bocca del suo primo ministro Jean-Claude Juncker protesta contro questo “populismo mediocre”, e chiede pure polemico per quale ragione non sono stati inseriti gli Stati Usa di Delaware, Nevada e Wyoming, con accenti fatti propri anche dalla Svizzera.

Se guardiamo in effetti la “Lista Bianca”, Paesi che avrebbero già adeguato la propria legislazione, vediamo infatti che su 40 ben 18 sono membri dell’Unione Europea: perfino l’Italia, e con essa Cipro, Danimarca,Finlandia, Francia,Germania, Grecia,Irlanda, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito Repubblica Ceca, Slovacchia, Spagna, Svezia e Ungheria. Più tre Dipendenze della Corona Britannica: la già citata Man nel Mare d’Irlanda e Guernsey e Jersey nella Manica. Più Stati Uniti, Giappone, Canada e Russia, a completare la lista del G8. Più Cina, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda, Argentina Messico, Barbados, Isole Vergini Usa, Islanda, Norvegia, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Maurizio, Seychelles, Sudafrica. Insomma, di tutta l’erba un fascio, Todos Caballeros, e tutti assolti perché se no non rimarrebbe più nessuno? Va ricordato che Barbados e Hong Kong, cioè la Cina, avevano minacciato a loro volta contro sanzioni, se fossero state condannate. Mentre al vertice europeo di Bruxelles il premier ceco Mirel Topolanek come presidente di turno dell’Ue aveva imposto la garanzia che nessun membro dell’Unione sarebbe finito nella lista nera di cui erano minacciati in particolare Lussemburgo, Belgio e Austria; e anzi che non avrebbe passato guai neanche la Svizzera. “Non siamo qui per fare liste nere od elenchi, ma per trovare insieme un’intesa su regole comuni”, aveva spiegato.

Il bello, però, è che non solo l’Ocse ha stabilito un elenco di paradisi fiscali. Di liste infatti ne esistono in quantità, a ognuna basata su criteri in parte diversi. Perfino l’Italia ne ha una: basata su un Decreto del Ministero dell’ Economia e delle Finanze del 21 novembre del 2001 che indicava 34 entità caratterizzate da un regime fiscale privilegiato: Isole Vergini Britanniche, Turks e Caicos, Montserrat, Gibilterra, Man, Jersey, Guernsey,  Antigua e Barbuda, Barbados, Belize, Dominica, Grenada, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Bahamas, Bahrein, Maldive, Seychelles, Nauru, Samoa, Tonga, Vanuatu, Cook, Niue, Antille Olandesi, Aruba, Isole Vergini Americane, Andorra, Liechtenstein, Monaco, Marshall, Liberia e Panama. Un altro elenco era quello dei centri finanziari offshore stabiliti dal Fondo Monetario Internazionale e dal Financial Stability Forum di Mario Draghi: definizione che implica innanzitutto un gran numero di istituzioni finanziarie che lavorano principalmente per non residenti. Ovvero, come ha spiegato a dicembre Barack Obama, “c’è un edificio nelle Isole Cayman in cui hanno sede all’incirca 12.000 società statunitensi. O si tratta del più grande edificio del mondo, o si tratta della più grande frode fiscale del mondo”. Obama, va ricordato, prima di diventare presidente Usa aveva presentato da senatore nel febbraio del 2007 una proposta di legge dal titolo che più esplicito non si potrebbe: Stop Tax Haven Abuse Act, “Legge per porre termine agli abusi dei paradisi fiscali”.

Altre caratteristiche individuate dal Fmi: un sistema finanziario i cui asset sono molto superori alle esigenze dell’economia interna; una serie di servizi come tassazione bassa o nulla, regolazione finanziaria minima, segreto bancario e anonimato. E lì nel 2000 si arrivava a oltre una settantina. Tra i nomi non ancora citati: Porto Rico, Ghana, Gibuti, Israele, Libano, Thailandia, Macao, Guam, Marianne Settentrionali, Stati Federati di Micronesia, Palau, Tangeri, Londra, Dublino e Tahiti. C’è inoltre una lista di 15 “Paesi non cooperativi” fissata dal G-7 nel 2000: Bahamas, Cayman, Cook, Dominica, Filippine, Israele, Libano, Liechtenstein, Marshall, Nauru, Niue, Panama, Russia, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadines. Poi portata nel 2001 a 23 con l’aggiunta di Egitto, Grenada, Guatemala, Indonesia, Myanmar, Nigeria, Ucraina e Ungheria. Mentre un altro elenco di entità più o meno accusate comprende anche lo Stato delle Comore di Anjouan, la Bosnia-Erzegovina, la Macedonia, la dipendenza australiana di Norfolk, la Dipendenza della Corona Britannica di Sark e perfino il comune di Campione d’Italia;

Secondo Transparency International, nei paradisi fiscali sarebbero ospitate “400 banche, i due terzi dei 2000 fondi speculativi e 2 milioni di società di facciata, rappresentanti 10.000 miliardi di dollari, 7400 miliardi di euro, di attivi finanziari”. E una ricerca coordinata da Viktor Ukmar, professore emerito dell’Università di Genova e Presidente del Centro di Ricerche Tributarie dell’Impresa presso l’Università Bocconi, dava all’inizio del decennio 320 banche italiane con sedi in 30 Paradisi fiscali; 30 con sede in Lussemburgo; 117 gruppi controllati da banche italiane; 112 delle 250 società italiane quotate in Borsa, quasi il 50%; e 22 degli 88 gruppi bancari italiani con partecipazioni di controllo su società residenti in paradisi fiscali, il 25%.