Ecco come l’Italia se la può cavare tra disgregazioni e oligarchie

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Ecco come l’Italia se la può cavare tra disgregazioni e oligarchie

01 Febbraio 2010

I rischi di crisi politica derivano in Italia da due cause contrapposte ma parallele: da una parte è sempre presente una spinta oligarchica, l’aspirazione a una gestione del potere da parte di circoli ristretti (oggi in prima linea vi sono ancora i magistrati, mentre sono un po’ defilati banchieri e grandi industriali, in calo anche i grandi giornali e con il fiato assai corto i politici tradizionali) dall’altra è sempre forte una tendenza alla disgregazione, tendenza che può trasformare in un fattore negativo fenomeni che in sé hanno un segno altamente positivo: il peso delle piccole municipalità rispetto alle metropoli, delle famiglie rispetto allo Stato, delle piccole imprese in confronto delle grandi.

Nella Prima repubblica la compresenza delle due tendenze polarizzanti veniva tenuta sotto controllo grazie alla collocazione internazionale dell’Italia come Paese di frontiera della Guerra fredda: questo status di per sé offriva protezioni che aiutavano – non senza scompensi di fondo evidenti a un esame della nostra storia dal 1945 al 1992 – a delimitare le contraddizioni. Finita questa fase le forze tendenzialmente oligarchiche hanno cercato di imporre un nuovo assetto ancora (e più compiutamente) da loro sovrastato, la funzione di Silvio Berlusconi è stata quella di usare le forze caratterizzate per così dire dal “piccolo” per impedire un predominio oligarchico, frenando così anche tentazioni disgregatrici promosse dal “piccolo” stesso (come, ad esempio, le spinte secessionistiche).

Qualche elettore di questa rubrica contesta la carica riformatrice berlusconiana, anche con argomenti non privi di rilevanza. Eppure alcune scelte tra il 2001 e il 2003 (legge Biagi, riforma delle pensioni, tentativo di un nuovo assetto delle fondazioni bancarie, impostazione generale tesa a frenare la pressione fiscale), prima dell’attacco “oligarchicistico” di fine 2003-2004 hanno lasciato segni che neanche il successivo e restauratore governo Prodi è riuscito a cancellare. Anche nell’attuale legislatura la riforma di fatto strutturale della finanziaria, l’abolizione generalizzata dell’Ici sulla prima casa (segnale strategico della rinuncia ad aumenti fiscali anche in fase di dura crisi), un sistema di welfare studiato a sostegno della contrattazione decentrata, la flessibilità dell’uso dello stesso welfare per reggere la crisi, la pressione per spingere le banche a investimenti industriali e naturalmente la fondamentale definizione di una cornice per un federalismo fiscale, sono riforme che hanno un’influenza profonda sulla società italiana. Si dirà che non bastano questi interventi. Ma è anche vero che senza il berlusconismo non ci sarebbero state neanche queste iniziative. Per comprendere quali siano le reali attitudini riformatrici ovvero quelle restauratrici in campo basta analizzare gli ultimi quindici anni che hanno visto otto anni di governi di centrodestra e sette di centrosinistra.

Certo, in generale, fare le riforme è lavoro complesso: si tratta di articolare capacità di progetto, di gestione e insieme di costruzione del consenso. Non è un caso che i più brillanti riformisti del governo siano di formazione socialista (da Giulio Tremonti a Maurizio Sacconi a Renato Brunetta), abbiano iniziato il loro apprendistato negli anni Ottanta e si siano rodati nel 1994 e nel 2001. E’ bene riflettere su come i leghisti comincino a trasformarsi da esponenti di un movimento di protesta a personale di governo solo dopo 15 anni di esperienze ministeriali. In generale l’Italia paga lo sterminio della sua classe dirigente nel 1992, quando l’area moderata fu decimata dalla magistratura e quella della sinistra dc e del pci si degradò a nomenclatura per propria viltà. E tutto avvenne senza neanche quelle cesure che consentono vere ripartenze (per esempio dopo il ’45).

Quindi mentre è legittimo lamentarsi per le lentezze e disorganicità riformiste del governo in carica, è anche indispensabile comprendere bene le condizioni concrete in cui si opera.

Oggi lo sbandamento della sinistra (dopo i casi Abruzzo, Sardegna, Lazio sono arrivati i casi Puglia, Umbria, Bologna, Calabria e così via) dà un vantaggio oggettivo al centrodestra ma che da solo non è risolutivo. Proprio perché si deve fare i conti non solo con la polarità oligarchica ma anche con quella disgregativa (che pesa con evidenza anche sul centrodestra a partire dalla Sicilia, Puglia, in parte a Milano, in Lazio, in Campania, e così via), tendenza che non si contrasta “solo” con il carisma berlusconiano, come è evidente anche da una lettura frettolosa degli ultimi quindici anni di storia italiana.

E alcuni fenomeni disgregativi riguardano da vicino il tema centrale di questa rubrica, cioè le mosse di quel segmento di restaurazione oligarchica che può essere (sia pure un po’ paradossalmente, perché si carica di un ruolo eccessivo un personaggio come l’attuale presidente della Fiat) chiamato montezemolismo.

La disgregazione della sinistra, spinge le tendenze oligarchiche (precisazione: al contrario di quel che scrive qualche lettore di questa rubrica, qui non si parla di complotti, di intrighi nascosti, bensì di “tendenze”, non di circoli oscuri ma di posizioni abbastanza esplicite – sia pure con qualche elemento di dissimulazione – che cercano apertamente di influenzare la realtà nazionale) a “coprirsi”, a rinviare offensive più decise: così si possono leggere per esempio le vicende della Fiat. E’ chiaro come molti dei problemi di Sergio Marchionne nascano dai conciliaboli tra Montezemolo e quell’altro pasticcione di Guglielmo Epifani, da tentativi di condizionare Confindustria e movimento sindacale, di dividere il governo mettendo sulla difensiva ministri come Tremonti e Sacconi. E’ questo lavorio che ha reso più difficile costruire sbocchi positivi con un amministratore delegato della Fiat che dalla sua non manca di una certa arroganza. Oggi, emersi alcuni elementi di grave contrasto tra Roma e Torino, Montezemolo (in questo caso molto opportunamente) si è impegnato a lavorare per trovare qualche sbocco. Il che naturalmente non fa (del tutto) dimenticare il ruolo negativo esercitato precedentemente. In generale quello che si può chiamare il montezemolismo è oggi sulla difensiva: deve, tra l’altro, impegnarsi a contenere le manovre di altri soggetti come quelli dell’area intorno a Carlo De Benedetti che vista fallire in modo clamoroso l’operazione Francesco Rutelli cerca di rilanciare Walter Veltroni. In questo senso va notato come i montezemolisti, al momento usino più il “Sole 24 ore” di una “Stampa” – anche questo peraltro quotidiano sostanzialmente montezemolista – assai ingessata dalle trattative della Fiat con il governo (si consideri addirittura la svolta pro processo breve del quotidiano torinese). Le ultime lodi – un po’ paradossali – del “Sole” al povero Bersani hanno questo segno: frenare l’operazione “rilancio Veltroni”.

Comunque sarà opportuno analizzare con cura i movimenti più o meno pro-disgregazione (sarà questa la tendenza di fondo di un ampio arco di forze che sostanzialmente possiamo definire “neoproporzionaliste”: infatti non ci sono per il momento condizioni per scelte più drasticamente restauratrici) dei vari segmenti oligarchistici, in competizione tra loro.