Ecco perché la “montagna” D’Addario ha partorito un topolino
27 Luglio 2009
Passano i mesi e la campagna mediatico-moralistica partorisce il prevedibile, ma non previsto dai suoi promotori, ridiculus mus, cioè un buffo topolino, come il “benevolo” pezzo di D’Avanzo su Repubblica (giovedì 23 luglio). Ma più passa il tempo più paiono farsi evidenti, anche, i diversi profili di reato che accompagnano l’intera vicenda D’Addario dai suoi primi e privati momenti. Dall’introduzione in casa altrui tradendo la buona fede dell’ospite, agli effetti soggettivamente perseguiti (dolosi, con numerose aggravanti) a danno della buona fama del premier (e non vi sono risvolti di “danno esistenziale”?), fino ai profili penali più seri.
Il tutto, infatti, facendo perno continuativamente sul reato iniziale dal profilo indiscutibile, è rivolto contro il presidente del Consiglio ed è stato deliberatamente esteso alla sua rappresentatività interna e internazionale, ponendosi rischiosamente ai confini dei beni protetti sotto la rubrica “delitti contro la personalità dello Stato”, che tutt’ora esiste (libro II, titolo I del CP).
Insomma, se non si è confusi anzi plagiati dalla battaglia politico-mediatica e dalla sua logica di uso dei fatti, tutto quello che si è cercato di volgere contro Berlusconi si potrebbe configurare come reato (e reato continuato) a carico della D’Addario e di una rete (associazione) di eventuali conniventi o complici.
Da un lato, infatti, non si può pensare che sia garantita al singolo tutela da pressioni di vario genere (anche risibili) in un qualsiasi luogo di lavoro, ad esempio, e non vi sia tutela per il capo dell’esecutivo dall’arbitrio tra il “punitivo” e il ricattatorio di un privato. Dall’altro, mi pare che si configurerebbe un concorso se fosse provato che dei privati hanno contribuito a trasformare il primo reato (registrazioni di conversazioni private a scopo di nuocere) in uno strumento ordinato ad attentare alla buona fama, con implicazioni di danno esistenziale, e con sospetto di danno per l’ordinamento.
La predisposizione come strumento offensivo, e l’uso poi nella sfera pubblica, di dati in se stessi risultato e prova di reato, non sarebbero cioè perseguibili (e non lo sono) in quanto legittima produzione e divulgazione di notizie, ma in virtù di una fase precedente e latente. Fase che consisterebbe nell’uso illecito di una prova per mettere in atto l’intento delittuoso della D’Addario. È questo un terreno solido, non congetturale come quello in cui si muove chi si è chiesto quale calcolo e quali consiglieri abbiano indotto, come ouverture, la sortita della signora Veronica Lario.
Solo un magma molto italiano di mentalità e di generazioni, eredi del ribellismo antistato d’antan, può considerare “normale” oggi il tentativo di colpire l’integrità d’esercizio dei poteri del Presidente del Consiglio colpendone la personalità, l’integrità psichico-morale, l’efficienza operativa e il suo “corpo pubblico”, con una campagna, ora ipocrita ora esplicita, di attacchi personali e politici.
Ma tentare, e delittuosamente, di legare una persona per accusarlo di non muoversi, e poterlo poi imputare e sanzionare in pubblica e in sede istituzionale per questa immobilità, assomiglia molto ad un reato continuato (con concorso) dai profili complessi, se si vuole, nel caso particolare, ma non ignoti alle leggi e al giurista.