Ecco perché non crediamo a Gutgeld quando dice che la spending review ha funzionato
22 Giugno 2017
di Carlo Mascio
All’inizio ci avevamo quasi creduto. Quando il commissario alla revisione della spesa, il deputato Pd Yoram Gutgeld, ha presentato al Parlamento la sua relazione sugli interventi fatti dai governi Renzi e Gentiloni per ridurre le uscite dello Stato, la famosa spending review, sottolineando come “tra 2014 e 2017 sono stati tagliati quasi 30 miliardi di capitoli di spesa”, sembrava una buona notizia. Un’inversione di tendenza. Tanto che il ministro Padoan era arrivato a dire quasi con tono minaccioso: “Spero, dopo questa presentazione, di leggere un pò meno sulla stampa che in Italia la spending o non si è fatta o si è fatta male”. Come dire: guai a chi si azzarda a dire che non stiamo mettendo mano ai conti pubblici per ridurre la spesa.
Sarà anche così. Ma dopo la presentazione del commissario Gutgeld qualche domanda ci è venuta spontanea: se è vero che la spending ha funzionato, come mai il debito pubblico negli ultimi tre anni è salito, come certificano i dati Istat e quelli di Bankitalia? E ancora: come mai l’Europa ci ha chiesto una manovra aggiuntiva, la famosa manovrina, per far quadrare i conti pubblici? Operazione non ancora conclusa, a quanto pare, dato che in autunno Padoan dovrà trovare altre risorse per evitare che a gennaio 2018 scattino le clausole di salvaguardia previste dall’Ue che comporterebbero l’aumento automatico delle aliquote Iva dal 10 al 13 e quella del 22 al 25%.
Ma questi temi non sono stati nemmeno sfiorati dal tandem Gutgeld-Padoan. E il perché ce lo rivelano i conti. Se è vero che da un lato sono stati “risparmati” quasi 30 miliardi di euro, dall’altro, però, sono aumentate le uscite complessive che nel 2016 sono ammontate a 829,3 miliardi, contro gli 819 del 2013. In più, le cosiddette “spese correnti” hanno superato per la prima volta la soglia dei 700 miliardi di euro: nel 2016, infatti, si sono spesi 706 miliardi, il 3,2% in più rispetto al 2013. Per cui, lo schema è semplice: risparmio da una parte ma spendo di più dall’altra. Schema, a quanto pare, paradossale che in passato ha portato i due due predecessori di Gutgeld ad abbandonare il loro incarico perché entrati in rotta di collisione con l’allora premier Renzi: “alcuni capitoli sono stati ridotti altri aumentati” dichiarava così Roberto Perotti dopo aver lasciato il suo posto perché “ero andato lì per ridurre la spesa pubblica, ma mi sono reso conto che per decisioni politiche che rispetto, si è deciso di non ridurla seriamente”. Stessa spiegazione offerta dal suo predecessore, Carlo Cottarelli: “Mentre cercavo di ridurre la spesa, passavano provvedimenti che la aumentavano”.
Dunque, nulla di nuovo: i 30 miliardi annunciati dal commissario Pd alla spending non sono altro che risorse prese da una parte e spostate dall’altra. In più, presentare questo “risparmio”, come hanno fatto Gutgeld e Padoan, come un risultato eclatante, da celebrare, significa implicitamente ammettere che più di tanto non si può fare. Come dire: dobbiamo vivere per forza al di sopra delle nostre possibilità. Per cui, in virtù di ciò, le sacche di spreco di denaro pubblico che fanno aumentare il debito pubblico, devono restare lì dove sono perché sono fonte di consenso. Ma questo significa una sola cosa: condannare il Paese al fallimento. Se a tutto questo si aggiunge che con il governo Renzi, le tasse sono aumentate (come rileva l’Istat, nel 2015, rispetto al 2014, abbiamo pagato più tasse e imposte per 9,26 miliardi), allora siamo di fronte al più classico schema di governo della sinistra: tassa e spendi. Per poi raccontare alla gente che fai questo perché così un giorno imprecisato il Pil aumenterà costantemente. Ma, di questo passo, questo giorno non arriverà mai.