Ecco perché Obama lascia che Assad uccida i siriani
28 Aprile 2012
di Fouad Ajami
Da poco più di un anno nella loro terribile ordalìa, i siriani sono ormai un popolo senza illusioni. "Siamo stati dimenticati dal mondo", mi ha recentemente confessato una figura nota dell’opposizione a Istanbul.
Giorni dopo, in un campo profughi nella periferia di Antakya, una tendopoli a breve distanza dalla loro tormentata patria, comuni cittadini siriani hanno ripetuto lo stesso messaggio. La diplomazia in corso maneggiata da Kofi Annan e il "cessate il fuoco" violato delle Nazioni Unite sono viste per quel che sono— un alibi all’abdicazione delle potenze occidentali, e un’àncora di salvezza per il regime.
Abu Muhammad, un ricco possidente sui 65 anni dalla città di Jisr al-Shughur che vive ormai in quel campo con la sua famiglia da più di dieci mesi, mi dice che il mondo sa tutto ciò che è necessario sapere del regime di Damasco, ma preferisce mettere la testa sotto la sabbia rispetto alle sue barbarie. Due dei suoi figli sono stati uccisi durante le proteste, un terzo è disperso. E’ stanco delle dichiarazioni dei potenti.
Nelle deliberazioni sulla Siria, la soluzione sembra sempre dietro l’angolo. La diplomazia americana sembra sempre sull’orlo di riuscire a mostrare alla Russia qual è la buona via a seguire nella crisi siriana. In queste interminabili discussioni, sembra non esserci mai un limite a sofismi sul sesso degli angeli e a cavillazioni varie.
La Siria non è la Libia, dicono gli uomini di Obama. Homs non è Bengasi, sostengono per l’appunto. Le difese aeree della Siria sono molto forti specialmente se comparate a quelle libiche, e anche l’esercito del regime di Damasco è più potente rispetto a quanto non lo fosse quello libico. E poi c’è la madre di tutti gli alibi – i confini della Siria sono più sensibili e precludono un intervento militare simile a quella che ha salvato i libici dalla stretta del loro tiranno.
La verità è che il sistema di difesa aereo dei siriani può essere facilmente messo fuori uso. E il potente esercito della Casata di Assad? I siriani lo chiamano jaysh abu shahatta (l’esercito in pantofole). Le reclute sunnite sono esauste, terrorizzate e denutrite, gettate in compiti che aborrano e temono – l’assassinio dei loro fratelli sunniti.
Per quanto riguarda quei confini sensibili, sono, semmai, una giustificazione appunto per una operazione Nato contro il regime canaglia degli Assad. In questo senso, la Siria non è la Libia. Di fatto la Siria è molto più importante della Libia.
Quanto alla tirannia degli Assad, riconosciamogli il suo, è riuscita a trasformare una lotta contro i loro privilegi, in uno velenoso scisma religioso interno alla Siria. Ci sarebbero potuti essere degli alawiti che si opponevano a Bashar al-Assad e al suo spietato regime, ma la stagione di uccisioni che si è protratta nell’ultimo anno, li ha fatti diventare dei basharisti. Gli Assad sono riusciti a convincerli che la caduta del regime sarebbe una catastrofe per tutti gli alawiti.
Non importa che gli alawiti non siano sciiti sul piano dottrinale islamico. Questa sottile distinzione si è ormai persa nella tempesta. Le linee delle parti al conflitto sono tracciate ormai nel modo più grossolano: [da una parte] c’è un regime assediato, quello di Damasco, composto di scismatici appoggiati dall’Iran, ci sono poi gli sciiti di Hezbollah a Beirut, e (vergognosamente) v’è poi un governo dominato d’estrazione sciita di Baghdad, tutti contro la maggioranza sunnita della Siria e i loro simpatizzanti in Turchia, Arabia Saudita, e i più piccoli Stati del Golfo.
E uno degli alibi a giustificazione della propria passività che l’amministrazione Obama agita sempre più è la minaccia rappresentata dagli islamisti tra i ranghi dell’opposizione. Questo non è altro che un riciclaggio della dichiarazione dello stesso regime di Assad, secondo cui la propria tirannia sarebbe uno scudo secolare per le minoranze, e una barriera all’ascesa degli islamisti. Tuttavia, il modo più sicuro in cui gli islamisti e i jihadisti possono conquistare il maggior potere in Siria, è con una guerra protratta che degradi e radicalizzi ulteriormente il Paese.
La verità che emerge da questo conflitto è la totale rinuncia a opporsi allo stato di cose dell’amministrazione Obama. Ormai da un anno, infatti, i funzionari americani hanno abilmente temporeggiato. Hanno passato la patata bollente all’autorità del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite quando anche un ragazzetto del liceo alle prese con una simulazione del CdS dell’Onu avrebbe saputo prevedere il veto di Russia e Cina. Era chiaro che l’amministrazione Obama non voleva armare l’opposizione per paura di "intensificare" il conflitto.
Si dica pure che sulla Siria dietro le quinte si gioca una partita ben più oscura: i funzionari americani stanno resistendo – e vanno scoraggiando – a che altri attori inviino dei cruciali aiuti alla ribellione. I nuovi emancipati di Libia avevano casse di armi ed erano pronti a inviarle ai ribelli siriani. Stando al leader dell’opposizione siriana con cui ho parlato a Istanbul, sono stati scoraggiati dal farlo dai funzionari americani. Anche i diplomatici arabi dagli stati del Golfo confermano lo stesso ostruzionismo da parte americana.
Sin dall’inizio, il ragionamento per cui l’introduzione di armi dall’esterno avrebbe reso più intenso il conflitto è indegno di essere preso sul serio. Il regime e i suoi vigilantes sono armati fino ai denti. Gli elicotteri d’assalto recentemente utilizzati nei combattimenti su Idlib sono un promemoria della disparità nella potenza di fuoco tra il regime e i suoi oppositori.
Il sospetto che gli Stati Uniti non vogliano davvero spingere alla caduta del regime del Assad ha preso piede nella regione. Nella versione indulgente, la politica verso la Siria è ostaggio dei bisogni elettorali del presidente Obama – l’inerzia dev’essere l’ordine delle cose fino a Novembre. Il presidente non ha interessi a sfidare veramente il regime iraniano, pertanto la Siria è sospesa nel limbo.
V’è sufficiente indignazione – e risorse – nella regione per deporre il regime di Damasco se e quando sarà presa una decisione americana favorevole a ciò. E ci sono due confini, quello israeliano e quello turco, dal quale uno sforzo risoluto potrebbe essere fatto. Una no-fly e no-drive zone al confine con la Turchia cambierebbero notevolmente i termini dell’impegno, e incoraggerebbero maggiori defezioni nelle forze del regime.
Tutti aspettano la luce verde da parte di Washington e della sua leadership. La Turchia vorrebbe agire, ma solo sotto lo stendardo della Nato, e in collaborazione con gli Stati Uniti. Cosa più importante, nessuna delle proposte per il salvataggio della Siria richiede la presenza di soldati americani.
Dai mercati di Dubai ci giunge notizia che la dittatura di Assad stia piazzando le proprie riserve auree, e a buon prezzo. Nel lungo periodo, il regime è ovviamente condannato. Ma è magra consolazione se il prezzo è una ribellione ove una parte ha il coltello dalla parte del manico e una potenza di fuoco sproporzionata rispetto all’altra. Non dovremmo attendere una Srebrenica siriana prima di spingere il regime nella sua tomba.
E’ una perdita di tempo – e di vite preziose – accettare un’illusoria diplomazia che in modo ridicolo ci vuole fare credere che alcune centinaia di osservatori delle Nazioni Unite possano scongiurare le atrocità di una tirannia settaria e senza pietà.
Fouad Ajami, professore associato presso la Stanford University’s Hoover Institution, è l’autore di "The Syrian Rebellion" che verrà pubblicato il mese prossimo per la Hoover Institution Press.
Tratto dal Wall Street Journal
Traduzione di Matteo Lapenna