Ecco perché un liberale dice no al Family day
09 Maggio 2007
Ho sempre apprezzato il liberalismo politicamente scorretto, contro il perbenismo progressista e i suoi tabù: quindi apprezzo Raimondo Cubeddu. Proprio per questo, con il tono di un’amichevole provocazione, vorrei qui cercare di esercitarmi contro il rischio del “perbenismo conservatore” che vedo aleggiare sul Family Day del 12 maggio, a cui Cubeddu ha annunciato la sua adesione.
Avrei aderito al Family Day senza problemi e con convinzione se, come inizialmente appariva, si fosse trattato di una manifestazione che chiedeva alla politica di adottare quelle misure di sostegno alla maternità e alla famiglia, che mancano nella cattolicissima Italia impregnata di cultura e retorica familistica, mentre in gran parte dell’Europa, protestante e non solo, sono da tempo un fatto acquisito. Vi avrei aderito per le stesse ragioni e con lo stesso spirito con cui sostengo i disegni di legge del centrodestra a favore delle famiglie numerose (che ovviamente non discriminano tra famiglie regolarmente sposate o meno). D’altra parte, ritengo che sia lo Stato a doversi adeguare alla realtà sociale, a partire da quella della famiglia, e non viceversa. Ogni tentativo di invertire questa relazione ha del resto sempre dato pessimi risultati, quali che fossero le buone intenzioni.
L’appuntamento del Family Day, però, è stato poi caricato di altri significati culturali ed ideologici, divenendo una giornata non tanto “per”, ma soprattutto “anti”; prioritariamente anti-Dico.
Bene, io – lo ripeto – sono pro-family, dal cosiddetto quoziente familiare al riequilibrio della struttura della spesa sociale. Ma non sono, come “esigono” i promotori del Family Day, contro il riconoscimento delle unioni civili e di quelle omosessuali in particolare. Sono molto prudente circa la formula che il legislatore dovrebbe adottare (che dovrebbe a mio avviso essere molto “privatistica” e poco welfaristica e non dovrebbe riguardare un insieme variegato e indefinito di “formazioni sociali”). Dunque sono contro la formula dei Dico, che riflette una impostazione statalista e assistenzialista così forte da stabilire in prospettiva l’obbligo del “matrimonio” o di un “simil-matrimonio” per tutti.
Per le coppie di fatto eterosessuali penso inoltre che, senza inventare nuovi istituti, tutto potrebbe risolversi abbreviando i tempi punitivi e ostruzionistici cui la normativa condanna quanti vogliono divorziare e risposarsi e con qualche aggiustamento del Codice Civile. Ma il riconoscimento delle unioni gay (le più aborrite a piazza San Giovanni, mi pare di capire) mi sembra necessario, visto che non esiste oggi alcun istituto che consenta a due uomini o due donne che si amano di organizzare la propria vita comune (il che equivale a dire: i reciproci impegni per il futuro) sulla base di un insieme di garanzie e di tutele eque e liberamente accessibili. Si dice: così si aumenta inutilmente la complessità sociale. Può darsi. Ma qui è la realtà a complicarsi e a costringere il diritto ad adeguarsi. Non il contrario. Non bisogna – ha ragione Cubeddu – rendere le leggi burocraticamente complicate e inapplicabili. Ma non bisogna neanche “abolire” o disconoscere per legge una parte della realtà sociale, per non essere costretti a innovare una normativa. Per stare in ambito familiare, anche la parificazione giuridica di figli naturali e figli legittimi (ancora da completare) ha complicato il Codice civile, oltre a complicare la vita alla “famiglia tradizionale”.
La mia posizione, peraltro, non è particolarmente originale o innovativa: ovunque in Europa (governino le destre o le sinistre, senza particolari differenze) sono in genere tanto più forti le misure di sostegno alla famiglia quanto più sono estese le garanzie riservate alle coppie conviventi more coniugali, anche gay (non userò mai il termine matrimonio gay, perché amo chiamare con nomi differenti cose differenti, che richiedono regolamentazioni differenti). Sarkozy, ad esempio, ha vinto le elezioni francesi all’insegna dell’ordine e dell’educazione (anch’io penso che quando in classe entra il professore sarebbe bene che gli alunni si alzassero in piedi) e dei valori tradizionali fondanti la “francesità”, ma non si sogna certo di abolire i Pacs.
Vi è un’altra ragione per cui non andrò al Family Day: perché ho un’idea evolutiva – pur non fanaticamente progressista – della famiglia come realtà sociale. L’istituto familiare “archetipico” dal punto di vista giuridico non esiste e non è un riferimento per il legislatore. La Chiesa ci parla della famiglia come di un essenziale contenitore simbolico di bisogni psichici e spirituali, a cui ciascuno è portato ad assegnare il proprio personale contenuto: in questo modo raccoglie quindi il consenso su di un istituto dai caratteri tanto indefiniti quanto “eterni”. Ma la storia della famiglia è, purtroppo o per fortuna, un’altra. Il ruolo della famiglia e più ancora la forma che essa assume è, per definizione, mutevole. Il bisogno di dedizione, comprensione, gratuità e di sicurezza a cui la famiglia socialmente adempie ha assunto forme molto diverse. Tra questi, oggi, ci sono anche le coppie gay che, a differenza del passato, costituiscono una forma ordinaria e tutt’altro che eccentrica di organizzazione sociale delle relazioni omosessuali: questo cambiamento, questa “normalizzazione” è per me un dato positivo, un fattore di unità e di integrazione.
Peraltro, la “famiglia naturale” come noi la conosciamo ha, oggi, poco più di 30 anni. Meno di 90 anni fa, In Italia, le donne sposate non avevano una autonoma capacità giuridica. Fino al 1975, invece, non avevano una effettiva parità giuridica in ambito familiare e non condividevano con i mariti la piena potestà sui figli. La famiglia di cui parliamo oggi “nasce” (ovviamente non dal nulla) nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia. Questa riforma, che ha affrancato le donne (in quanto mogli e madri) da una condizione di subordinazione giuridica, ha “legalizzato” i profondi e già avvenuti mutamenti della struttura sociale della famiglia e della realtà psicologica dei rapporti familiari: dunque ha forse anche accelerato fenomeni di “smottamento” e di instabilità. Ma questa instabilità non mi pare così negativa, né rimediabile tentando di ripristinare artificialmente lo status quo ante. In questa famiglia “disgregata” dell’Italia post-divorzio (ma in realtà di tutto l’Occidente liberale) c’è un tasso di uguaglianza e di libertà e responsabilità individuale (di certezza dei diritti e dei doveri) enormemente superiore a quella della famiglia che l’aveva storicamente preceduta, e che non so neppure se rappresenti davvero il modello dei sostenitori della famiglia “naturale” e “costituzionale”. Mi sbaglierò, ma nella gerarchia dei valori irrinunciabili e “non negoziabili” dell’occidente, da contrapporre al fanatismo islamico, l’uguaglianza giuridica e sociale delle donne sta molto in alto, forse al primo posto. Eppure è una conquista recente, nella società e nella famiglia; e ha profondamente e positivamente modificato entrambe.
Mi si consenta un’ultima considerazione più generale, che ha comunque a che fare, se non con lo spirito del Family Day, con molte delle retoriche e ricorrenti giaculatorie sulla famiglia.
Anche la tradizione che si riflette nelle scelte degli individui e nella cultura della società è una “tradizione vivente”, al pari di quella religiosa, affidata al magistero e alla mutevole dottrina della Chiesa. Io da liberale ho sempre creduto che la tradizione, come esito dei pensieri, dei confronti e dei commerci umani e delle diverse e libere sperimentazioni sociali, dovesse costituire un argine alla legislazione e imporre un limite alle pretese del potere. Francamente, nel Family Day vedo il contrario: l’invocazione della legge come custode di un fondamentale istituto della tradizione (la famiglia), per impedirne il mutamento e per arginarne la temuta dissoluzione.
Non mi convince il “catastrofismo familiare”, che ha tanti caratteri comuni con il “catastrofismo ambientale”, lo stesso pessimismo escatologico e soprattutto lo stesso bersaglio: “l’homo americanus”, l’individualista-consumista e lo scettico-relativista, che non saprebbe riconoscere il limite o la “verità” naturale della condizione umana e del suo rapporto con le cose e con gli altri. Insomma “l’occidentale” forte della propria identità, ma anche del gusto della propria libertà; l’uomo che crede nella disciplina, nella sicurezza e nell’autorità, ma che non confonde politicamente il “bene” (l’ordine morale della libertà) con il “per-bene” (l’ordine moralistico dei gusti, delle opinioni e delle ideologie prevalenti e invadenti).
C’è in questo bisogno ideologico di restaurazione di un ordine perduto lo stesso “odio di sé” che altri giustamente denunciano nelle idee che attingono al mito della palingenesi progressista; c’è di fondo l’idea di rigettare come inservibile e rinnegare come colpevole la libertà giuridica e spirituale di cui è intessuta ogni nostra scelta e su cui si è costruita la nostra vita “occidentale”. E tutto questo non solo non mi convince, ma proprio non mi piace.
Nel confronto tra cristianesimo e liberalismo – universi dai confini incerti e in parte coincidenti – ha le sue più solide radici l’occidente che profondamente amiamo. Confronto e dialogo presuppongono che non vi siano gratuite o strumentali condiscendenze intellettuali.