Elogio dell’ozio e di un antico modo di vedere il progresso
16 Ottobre 2011
di Luca Negri
L’ultimo libro firmato dal saggista Marc Fumaroli è lungo, molto lungo. Oltre settecento pagine. Ma forse l’aggettivo corretto è “vasto”, come un oceano, come l’oceano Atlantico che separa le due città tirate in ballo dal titolo. Parigi – New York e ritorno (edizioni Adelphi) invita proprio al tuffarsi dentro per godere della scrittura dell’accademico francese e scovare tesori negli abissi della cultura occidentale. La forma è quella del journal, del diario, scritto precisamente fra il 2007 e il 2009 in equilibrio fra le due capitali delle arti degli ultimi due secoli.
Due città che rappresentano ancora due diversi modi di vivere e di mettersi di fronte alle immagini, al loro trionfo, alla loro invadenza nel panorama mediatico contemporaneo. Se la Grande Mela è il frenetico centro irradiante “l’insoddisfazione permanente e latente che il panico su vasta scala della pubblicità contemporanea provoca nei nostri desideri sconsiderati”, Parigi, seppur colonizzata culturalmente come tutta l’Europa, rimane custode più o meno consapevole della reazione romantica, della resistenza contro la riduzione dell’uomo a semplici bersaglio del marketing.
L’unica liberazione dallo “stato di urgenza permanente” della postmodernità è infatti l’antica capacità di contemplazione ed ascolto al cospetto delle opere d’arte tramandateci da società meno ridotte allo stato meramente “cervico-intestinale” della nostra. La vera arte, infatti, non mira a nutrire solo la nostra parte celebrale o a riempire materialmente le nostre interiora, come fanno le immagini pubblicitarie, ma si rivolge direttamente all’anima, parte dell’uomo la cui salute non viene registrata da alcun Pil né dalle fluttuazioni del mercato finanziario.
Anche “il divertimento è diventato un lavoro durissimo”, il libertinaggio si è trasformato da scelta personale di vita a industria totalitaria, “si è moderni soltanto a questo ritmo bulimico, digestivo e depresso”. Dunque, occorre salvarsi recuperando la lezione di chi ci insegna a sottrarci da questa continua performance: perdere tempo e riservarlo allo spirito è il consiglio di Valéry, “restate in santo riposo” è “l’antifona smobilizzante” dei Salmi.
Dobbiamo recuperare l’otium latino, che non è il semplice far niente, la pigrizia sterile, l’inerzia. Come nell’antica Roma è un “supplemento d’anima”, contemplazione attiva, utile al sé e all’intera società che lo circonda. Fumaroli, parigino in America, ricorda Mark Twain turista in Italia, incantato dalla dolcezza del vivere mediterraneo all’epoca lontano anni luce dall’inquietudine regnante nel Nuovo Mondo abitato da yankee che Tocqueville definì “cartesiani senza aver letto Cartesio”.
Alla radice di quella dolcezza c’è proprio “l’otium monastico cristiano” che “implicava un’acuta presa di coscienza della precarietà esistenziale dell’edificio economico e politico”. San Benedetto, allora, ci può aiutare a reggere la crisi mondiale, rammentandoci che il “labora” non può che completarsi con l’"ora", con la preghiera. Il riposo contemplativo fa scaturire “le fonti divine del poco di scienza, di saggezza, di giustizia, di amore, di felicità e di bellezza che i mortali possono trasmettersi per rendersi personalmente degni di stima”.
Qualcosa s’è perso anche in Europa di questa grande saggezza cattolica. E le radici di quella perdita sono “nel secolo di Bacon e di Descartes, successivo a quello di Calvino”. Il protestantesimo e le scoperte della fisica screditarono il riposo a favore del movimento, era così pronto il terreno per “le filosofie della Storia che affidano il progresso dello spirito al grado di lavoro dello schiavo”. Ed ora siamo tutti schiavi del nostro tempo, anche mentre usufruiamo del riposo “taylorizzato”, anche quando andiamo al cinema per assistere ad un blockbuster concepito come un blitzkrieg, come un atto di guerra per la conquista della nostra attenzione.
Allora, in tutte le pagine di Fumaroli, che siano di elogio per le profezie sull’impatto nefasto della riproduzione fotografica lasciateci da Baudelaire, di critica all’arte contemporanea e ai suoi “plastificatori”, di richiamo alla Chiesa cattolica come grande mecenate delle arti devozionali, aleggia l’invito fatto da Giuseppe Verdi e messo come epigrafe all’intero volume: “Torniamo all’antico, sarà un progresso”.