Elogio di Giulio Giorello e delle differenze (tra noi e lui)
26 Settembre 2010
Ha ragione il filosofo della scienza Giulio Giorello, uno studioso geniale la cui vasta mente spazia in tutti i campi dello scibile, quando nell’intervista rilasciata al quotidiano che più si ispira alla lezione dei Benjamin Constant e degli Stuart Mill, ‘Liberazione’, lamenta che «stiamo svendendo tutto, anche l’orgoglio delle differenze». Le parole si riferiscono al deplorevole episodio della celebrazione del 140° anniversario della breccia di Porta Pia, che ha visto riuniti, per la prima volta, nella solenne cerimonia dinanzi alla breccia di Porta Pia, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno e il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone. L’autore dell’intervista, Paolo Persichetti, esordisce ricordando un’altra intollerabile provocazione allo spirito laico del paese, quella del cardinale Angelo Dell’Acqua che, nel centenario del 1970, definì «la caduta del potere temporale un segno benevolo della divina provvidenza della Chiesa». Avrebbe potuto aggiungere che il giudizio era condiviso dalla più alta autorità della Chiesa, Paolo VI. Il cerimoniale, alla presenza di «un sindaco d’origine fascista ha mandato in frantumi ogni forma simbolica di laicità dello Stato» e a nulla è servita la protesta del gruppetto radicale che, giustamente, avrebbe voluto togliere la parola al cardinale Bertone, condividendo, da sinistra, lo spirito del ‘Sillabo’ per cui è autorizzato a parlare solo colui che parla in nome della Verità e che, in questo caso, ricorda bene come sono andate le cose, il trionfo dei bersaglieri e la giusta umiliazione inflitta al papa-Re.
«Siamo un paese senza orgoglio delle nostre battaglie» sospira il radicale – liberale/liberista/libertario – Giorello che, poco dopo aggiunge, «Mi domando cosa faranno alla prossima commemorazione della Resistenza». Preoccupazione legittima, professore, giacché qui si corre il rischio che il revisionismo storiografico di Renzo de Felice – accusato dal Suo dirimpettaio di ‘Liberazione’, Nicola Tranfaglia, di aver pugnalato alle spalle la Repubblica e la sua Costituzione – insieme alla descrizione realistica della guerra civile fatta dal rinnegato Giampaolo Pansa, possa trasformare l’omaggio ai caduti dalla parte giusta in pietas per tutti i combattenti, anche per quelli che in buona fede, come pretendeva Luciano Violante, pensavano di battersi per l’onore della patria.
«Questa memoria condivisa» (fa orrore solo il pronunciare tali parole!), secondo il maître-à-penser del ‘Corriere della Sera’,«ricorda il monumento fatto fare al dittatore Franco ai caduti della guerra civile spagnola. Messi tutti insieme senza distinzione». A dire la verità, non si capisce -tanto più se si considera che Giorello proviene dalla disciplina più usa a impiegare un linguaggio preciso e rigoroso, la matematica – che cosa s’intenda con l’espressione ‘senza distinzione’. Il cimitero della Val de los Caìdos, al quale si fa cenno, è diviso in due sezioni: i ‘nazionalisti’, da una parte e i ‘repubblicani’ dall’altra. Abituato, com’ero, a una retorica resistenziale che, come il prezzemolo si ficcava da tutte le parti–del mio amico, sindaco socialista di Genova, Fulvio Cerofolini, dicevamo per scherzo che avrebbe presentato, in occasione di non so quale anniversario della lotta di liberazione, una lectio magistralis su l’elefante nella Resistenza italiana – le immagini della Val destarono in me una commozione profonda che espressi in un saggio, pubblicato da Renzo de Felice su ‘Storia contemporanea’ (vi analizzavo, en passant, la natura e le funzioni dei simboli politici). Successivamente, dei colleghi spagnoli mi sottoposero a una brutale doccia fredda: la Val de los Caidos, mi fecero notare, sarebbe stata, sì, l’espressione di una effettiva pacificazione degli animi e di una ritrovata cifra civile – gli amici madrileni, i cui congiunti erano state vittime della violenza franchista, come si vede, davano del monumento ‘in sé’ un giudizio opposto a quello di Giorello – se non fosse servita alla polizia franchista per registrare quanti andavano a deporre fiori sulle tombe… sbagliate. Comunque il filosofo, al pari della ‘buonanima’, ha sempre ragione: sono i miei amici antifranchisti a essersi bevuto il cervello in nome di un inaccettabile «scurdammece o ‘passat ». E proprio per venire incontro a Giorello, si potrebbe proporre al governo Zapatero lo smantellamento del sacrario militare e il trasferimento delle bare di ‘Arriba Espana’ nello stesso posto in cui, nella toccante poesia di Totò ‘A livella’,« il nobile marchese, signore di Rovigo e di Belluno, ardimentoso eroe di mille imprese» avrebbe voluto gettare «a casciullella cu’e qquatt’osse» di «Esposito Gennaro, netturbino» («la vostra salma andava, sì, inumata ma seppellita nella spazzatura!»).
Purtroppo, si è costretti, invece, a dissentire da Giorello per quel che riguarda il giudizio sugli Stati Uniti. Eh no! Anche lì l’embrassons-nous ha confuso le intelligenze e guastato i sentimenti. Sarà anche vero che, oltre Atlantico, «quando si celebra la guerra civile non vengono messi sullo stesso piano gli abolizionisti e gli schiavisti del Sud» –sennonché quale famiglia ideologica da una parte e dall’altra dell’Oceano, oggi fa questa equiparazione assurda?–ma è un dato sconfortante che, negli animi dei nordamericani, quella ferita si sia del tutto rimarginata. «Quando il diavolo conciliatorista ci mette la coda!» si sarebbe tentati di dire. La riprova di questa perdita di dignità ce la fornisce l’arte più popolare che sia stata inventata in Parnaso, il cinema. Non parlo tanto di Via col vento, lo struggente film di Victor Fleming del 1939 – tratto dal romanzo omonimo di Margaret Mithcell, Premio Pulitzer 1937 – al quale avevano posto mano registi del calibro di Georg Cukor e Sam Wood nonché lo stesso produttore, il grande David Selznik. Mi riferisco, invece, a quello che considero il più grande regista di tutti i tempi, il vecchio John Ford, che, per limitarci a film come ‘Soldati a cavallo’ del 1959 e ancor più a quel capolavoro che è ‘Il sole splende alto’ del 1953, vede, vergognosamente, nei soldati del Sud i paladini di una cattiva causa, dotati, però, del senso dell’onore e non privi, talora, di una profonda umanità. In particolare, nel secondo film,«una sorta di vangelo che compendia tutta l’esperienza, le idee, le simpatie, le idiosincrasie» di Ford (M. Morandini) c’è una scena in cui i reduci del Sud chiedono in prestito al club nordista la bandiera a stelle e a strisce per dare inizio al loro raduno patriottico, che si svolgerà al suono di ‘Dixie’. Incredibile! Sarebbe come se i reduci di Salò rendessero omaggio alla tomba di Duccio Galimberti e i militanti dell’ANPI deponessero una corona a Piazzale Loreto!
No, è vero, l’Italia ha visto, nelle trasmissioni televisive da Porta Pia, una ‘breccia al contrario’,«un muro di cemento messo al posto della breccia». Non c’è rimedio:«Siamo un Paese che sta svendendo tutto, anche l’orgoglio delle differenze»! «Un senso di grande amarezza» è, pertanto «pienamente giustificato» se si pensa agli incoscienti – ma sarebbe meglio definirli farabutti – che vorrebbero mettere fine alla ‘guerra civile’ dei simboli, nel riconoscimento (assurdo) che da una parte e dall’altra ci si batteva – si parla di quanti agivano in maniera del tutto disinteressata – in difesa di valori reali e profondi, anche se poi, oggettivamente, la vittoria degli uni avrebbe spianato la via a una democrazia ‘a norma’ mentre una eventuale vittoria degli altri avrebbe significato il suicidio delle stesse idealità per le quali si rischiava la vita (lo stato nazionale , ereditato da Cavour e da Mazzini, sarebbe stato ridotto dall’alleato Hitler a una provincia del Reich!).
Nella seconda parte dell’intervista, Giorello risulta ancora più persuasivo. Qui, infatti, si solleva ai piani alti della storiografia, della religione, della stessa teologia. Il Risorgimento, spiega citando lo storico valdese fiorentino, Giorgio Spini, fu merito, oltreché dei democratici e dei liberal-laicisti, anche (e forse soprattutto) della componente protestante: i Gioberti e i Manzoni vi vennero coinvolti per caso e… per un equivoco.«Si pensi allo stesso Giuseppe Mazzini», esemplifica Giorello. Mazzini? Abbiamo letto bene? In realtà, se qualcuno credesse mai che il profeta genovese, pur apprezzando molto le libertà britanniche, manteneva un’atavica diffidenza, ahimé di matrice ‘cattolica’, nei confronti dell’individualismo dei paesi anglosassoni (sul quale hanno svolto rilievi acuti studiosi come Gregory Claeys, Koenraad W Swart, Friedrich Hayek, Guido De Ruggiero) si sbaglierebbe di grosso. Giorello, che conosce come pochi la storia del pensiero politico, saprebbe bene cosa opporgli (ce lo dirà in un prossimo articolo sul ‘Corriere’).
Non poteva mancare, nell’intervista, una riflessione epocale, degna dei Burchkardt e dei Huizinga: «In questi giorni ho visto la fotografia della regina Elisabetta e del Papa che si sono incontrati. Erano l’immagine di due resti. La monarchia dentro la chiesa e la monarchia dentro lo Stato». Al posto degli inquilini di Windsor e dei palazzi vaticani mi preoccuperei seriamente nel sentire i rintocchi di questa campana a morto. D’altra parte il vento della storia ormai soffia in quella direzione e ai sudditi di S. M. Britannica come ai cattolici non resta che prenderne atto. E che altro potrebbero fare? A dir la verità, una ‘uscita di sicurezza’ ci sarebbe. Giorello ce la indica generosamente nella sua stessa persona di uomo e di filosofo: bisognerebbe maturare, come lui, un «ateismo protestante» e «repubblicano, un cristianesimo senza monarca, uno Stato senza monarca» o, rivoltando la frittata ossimorica, un «ateismo repubblicano», un «protestantesimo», consapevole che «la fede e la grazia del signore sono una cosa, le gerarchie sono un’altra». Nel nostro paese la ‘secolarizzazione’liberale – intesa come fuoruscita delle religioni, anche di quelle ideologiche, dalla politica -, per nostra fortuna, è ancora al di là da venire sicché ogni progetto di rifondazione del patto sociale si converte in riforma religiosa (E se anche per questa ricorrente tentazione di sostituire il sacerdote della Storia e del Progresso al sacerdote di Dio, la Chiesa avesse diffidato dello ‘spirito risorgimentale’? E’ un sospetto che qui dico e qui nego, sopravvenendomi il dubbio salutare che mi sia affiorato leggendo i libri di Angela Pellicciari, tante volte da me criticata!).
L’unica forma di revisionismo che Giorello, scendendo dall’empireo della teologia (atea) al livello, ben più prosaico, della storia umana, sembra tollerare è quello relativo ai massacri e ai misfatti dell’esercito piemontese. Questi Savoia, in effetti, non erano stinchi di santo e il merito di avere ‘sfondato’ a Porta Pia, non basta a nascondere quanto andò storto nel processo di compimento dell’unità nazionale. Qui il discorso si allarga e Giorello, che ora si avventura nella grande cultura letteraria nordamericana, avverte che ci vuole il coraggio degli Hermann Melville e dei William Faulkner, per dire agli italiani di «che lagrime grondi e di che sangue» il loro Risorgimento. «Noi abbiamo avuto alcuni grandi come Verga a proposito della novella ‘La libertà’» ma sono eccezioni. Il compito che ancora ci attende è quello di «scavare nella nostra coscienza collettiva, esaminare con franchezza fuori dall’agiografia non nascondere le cose ma il contrario». A onor del vero, i grandi storici italiani del Novecento, come ricordava Giuseppe Galasso in un articolo fortemente critico del revisionismo cattolico-tradizionalista, che impazza sui giornali, si sono già occupati dei nostri ‘peccati d’origine’, « ma questo Giulio non lo sa» e, del resto, non si può sapere tutto. Rosario Romeo: chi era costui?
Che dire, dopo aver letto, questa illuminante intervista? E ‘che fare’ se non esortare Giorello ad andare avanti, con «l’orgoglio delle differenze», senza farsi intimidire da quel falso galantuomo che è il Tempo, tenacemente impegnato a far dimenticare la continuità che lega, nei secoli, le buone cause? Il nostro ateo protestante e repubblicano ha mai pensato seriamente che nessuno ricorda più le vittime di Cornelio Silla, i sinceri democratici seguaci di Caio Mario, lontani avi della sinistra libertaria/liberale/liberista, che invano si opposero alle violenze del dittatore protofascista, al servizio della reazione aristocratica e della superstizione religiosa dei ‘pontefici romani’ dell’epoca- che, non a caso, avevano lo stesso nome dei sommi sacerdoti dell’era cristiana? Vogliamo scordarci che di Fregellae, la seconda città, dopo Roma, in età repubblicana , per aver preso le parti del progressista Mario, non rimase in piedi neppure una colonna dei fori e del templi? (Le sue rovine si trovano nel territorio del mio paese natio, Arce, ed è il mio patriottismo ciociaro che non mi permette di elaborare il lutto della sua distruzione). Per aver steso un velo su questo passato si è arrivati al punto che persino un ingenuone come Giuseppe Garibaldi non esitasse a fare, nel romanzo Clelia, l’elogio del dittatore Silla! Permeato di spiriti giorelliani, anche se divenuto concittadino di Mazzini, da buon arcese non posso non elevare una vibrata protesta!
Continuando con questo andazzo, nelle nostre aule universitarie, qualcuno potrebbe tirar fuori che Alfredo Rocco era un giurista coi controfiocchi o che la bonifica delle paludi pontine non fu pura e semplice propaganda politica! Tranquillizziamoci, però: grazie a intellettuali militanti come Giorello, i revisionisti «no pasaran!», «el combate no habrá tregua ni freno». Per parafrasare il titolo di un noto film dell’Albertone nazionale, «finché c’è guerra civile c’è speranza»: la coscienza morale rimarrà vigile e si può scommettere che le forze della reazione «non praevalebunt». Mai però abbassare la guardia, mai consentire a un qualsiasi cardinal Bertone di pronunciare sacrileghe parole come queste :« Sì o signore benedici oggi e sempre questa nazione, assisti e illumina i suoi governanti affinché operino instancabilmente per il bene comune, dona l’eterna pace a quanti qui caddero e a tutti coloro che li seguono e anche in questi giorni hanno sacrificato la vita per il bene della patria e dell’umanità.». L’onore delle armi va concesso soltanto a chi se lo merita e il segretario di Stato non è della partita.
Al di sopra della democrazia liberale, della Costituzione, delle leggi dello Stato, dev’esserci un’autorità morale – rappresentata oggi in Italia dalla Bonino, da Di Pietro, dalla sinistra antagonista che con Vendola, esalta il martirio di Carlo Giuliani – cui va riconosciuto il diritto di stabilire chi «deve parlare» e chi no. Tale autorità morale fa pensare a una trascrizione laicistica della teoria medievale dei due "soli" – ieri l’Impero e il Papato, oggi lo Stato e i guardiani dell’antifascismo legittimati, questi ultimi, da una fonte assai più alta e preziosa delle ‘regole del gioco’. Chi ne abbia inteso la natura e la funzione comprende agevolmente come essa non possa accontentarsi di manifestare il proprio dissenso da quanti hanno deciso di invitare il papa alla Sapienza e il suo ministro degli Esteri a Porta Pia, con grida, fischi, pernacchie, insulti, sit in e altri mezzi «non violenti»: deve avere, invece, il potere di mandare a monte la cerimonia.
Per fortuna, non siamo inglesi e le forme vuote della democrazia non c’incantano. Un autore di cui Giorello s’è occupato, John Stuart Mill, scriveva nell’agosto del 1863 al democratico radicale Louis Blanc «anche se vedo i fatti in maniera diversa da voi, quel che importa è riconoscere che possono venir visti come voi li vedete». Adagio, Biagio. Applicando alla lettera il principio di Mill, si dovrebbe riconoscere il diritto dei politici del centro-destra a vedere i fatti in maniera diversa da Giorello e, quindi, se chiamati dagli elettori al governo del paese, il diritto di invitare alle cerimonie ufficiali tutte le autorità spirituali e temporali che si ritiene opportuno. Anche del filosofo inglese, pensatore troppo ‘debole’, non ci si può fidare – tra l’altro, ci ha lasciato pagine sull’esproprio dei beni ecclesiastici che sarebbe meglio dimenticare per i tanti riconoscimenti fatti al clero. Uno come lui non avrebbe mai ingrossato il gruppetto dei radicali che a Roma protestavano per la presenza contaminante di Bertone! Almeno dalla caduta dei Giacobini, del resto, viviamo in società in cui i più puri hanno la rogna. Comunque, se la perfezione, in fatto di democrazia, non è di questo mondo, l’intellighentzia rappresentata da Giorello & C. si sta seriamente attrezzando per raggiungerla. E’ un riconoscimento dovuto!