Elogio (liberale) del giudice Hisashi Owada
05 Febbraio 2012
La sentenza della Corte Internazionale dell’Aja che annulla la condanna della Germania quale responsabile civile della strage di Civitella pronunciata dal tribunale militare della Spezia e poi confermata in Appello e in Cassazione e, soprattutto, le reazioni che ne sono seguite in Italia inducono a malinconiche riflessioni sui fondamenti della civiltà del diritto e dell’etica sociale del nostro tempo. Non mi avventuro sui piani alti del diritto pubblico e del diritto internazionale ma mi limito a porre alcune domande dettate dal buon senso – sanchopanzesco – che ispira queste ‘lettere ciociare’.
Secondo la Corte di Cassazione ‘non esiste immunità di uno stato sovrano dal giudizio di un altro stato sovrano nel caso di crimini contro l’umanità’. Se ho capito bene, nel caso dei crimini contro l’umanità, non dovrebbe valere il brocardo latino «Nemo est iudex in causa» ("Nessuno è giudice per una causa propria"). Ne conseguirebbe, quindi, non c’era alcun bisogno del Tribunale di Norimberga presieduto dai magistrati dei paesi vincitori della Germania: le cause potevano essere portate anche davanti a un tribunale polacco o ungherese e (in seguito) israeliano.
Se questa è la filosofia della Cassazione, è difficile non avere qualche dubbio sulla sua ‘filosofia del diritto’, anche a prescindere da quelli che sempre più riguardano, a distanza di anni, un processo di cui il bel film Vincitori e vinti di Stanley Kramer (1961) restituì, mezzo secolo fa, tutta la tensione drammatica. Riconosciamolo, forse, non avevano tutti i torti i nostalgici del ventennio, che, da Cicero pro domo sua, facevano rilevare che non s’era mai visto prima, nella storia occidentale, un esercito vinto sottoposto a giudizio, e condannato, da un esercito vincitore. (Si sono visti, invece, stati e governi messi sotto accusa da altri, ad es., la Francia di Napoleone punita dai vincitori della Santa Alleanza e dell’Inghilterra, ma quella punizione – grazie alle arti diplomatiche di Talleyrand, poi nemmeno della Francia ma del suo regime imperiale – era il prodotto di una ‘decisione politica’, non l’effetto di un verdetto giudiziario).
Ma mettiamo da parte questo tema spinoso e controverso e chiediamoci, invece, se in nome del diritto internazionale dei popoli non si rischi di riproporre, paradossalmente, quel principio di sovranità assoluta – superiorem non recognoscens – che è sempre stato, et pour cause, la bestia nera dei pensatori liberali classici. Se ogni Stato, attraverso le sue corti, è sovrano nello stabilire quali atti debbano essere considerati ‘crimini contro l’umanità’, l’immunità che si vuol togliere allo Stato sotto accusa non diventa insindacabile diritto di sentenza per lo Stato accusatore? Così se un redivivo Gheddafi accusasse il governo fascista di ‘crimini contro l’umanità’(e forse ce ne sono stati anche a non voler ritenere veritiere le vicende narrate nel film di Moustapha Akkad, Il leone del deserto, 1981, un film che secondo Giulio Andreotti danneggiava l’onore dell’esercito italiano e che il sottosegretario agli esteri, il liberale – sic! – Raffaele Costa vietò di proiettare in Italia), la Corte di Cassazione di Tripoli non potrebbe autorizzare l’esproprio dei beni italiani in Libia e chiedere ad altri stati di comportarsi come ha fatto l’Italia col pignoramento di villa Vingoni a Como, in applicazione della sentenza del tribunale greco sul massacro di Distomo?
Capisco, sul piano umano, l’avvocato Roberto Alboni, che ha difeso le vittime di Civitella del 29 giugno 1944 – la tragedia lo riguarda personalmente giacché la morte di uno stretto congiunto gettò la sua famiglia nel lastrico – ma mi rende molto perplesso il suo giudizio sul giudice Hisashi Owada, un magistrato giapponese che ha suscitato un’ironia del tutto gratuita per il fatto che sia stato chiamato a presiedere un tribunale internazionale lui cittadino di un paese alleato della Germania, durante la seconda guerra mondiale: per Alboni, Owada, avrebbe fatto arretrare di cento anni la ‘civiltà del diritto’, sic!
All’avvocato aretino e ai giornali che, con dubbio gusto, hanno gettato fango sulla Germania di Angela Merkel, vorrei, tuttavia, porre un quesito. Nel 1937, ad Addis Abeba, un attentato al maresciallo Graziani, viceré d’Etiopia, provocò la morte di sette persone e il ferimento di altre cinquanta (tra le quali lo stesso maresciallo). Ne seguirono rappresaglie indiscriminate che portarono al massacro di tremila etiopi e di altre 1600 persone nel monastero di Debre Libanos che aveva dato rifugio ad un attentatore. Ebbene, poiché «lo Stato siamo noi» e la sentenza di una Corte di Cassazione (o suo equivalente) abissina che ci condannasse a risarcire le vittime dovrebbe essere rispettata, trattandosi appunto di ‘crimini contro l’umanità’, acconsentirebbero Roberto Alboni e Alessandro Sallusti – il condirettore del ‘Giornale’ che, parafrasando il Giusti, si sta autogabellando per antitedesco – di pagare di tasca propria, come tutti gli italiani del resto, un’imposta più alta proprio per venire incontro alle richieste (legittime) delle vittime abissine di 75 anni fa?
Ma c’è ancora qualche altra domanda da porre: se nel caso dei ‘crimini contro l’umanità’ – crimini, peraltro, per i quali è difficile trovare definizioni che trovino tutti concordi, ove si eccettuino poche fattispecie eclatanti – non c’è prescrizione ‘de jure’, non si è costretti, poi, a porre, realisticamente, qualche limite nel risalire indietro nel tempo? Ho un cognome sannita e, non ignorando la storia, so quello che fecero i Romani ai miei antenati (Secondino Tranquilli se ne ricordava così bene da adottare, come nom de plume, quello del console sannita nemico implacabile dei Romani, Ignazio Silone): sono autorizzato, pertanto, a chiamare in giudizio gli abitanti dell’Urbe? E venendo a secoli meno lontani, i saccheggi del primo console in Italia, al tempo delle ‘repubbliche giacobine’, non dovrebbero indurci a chiedere un risarcimento di danni, in considerazione del fatto che Napoleone non avallò soltanto furti ma altresì veri e propri eccidi di persone inermi, come non si stancano di ricordarci gli storici tradizionalisti delle ‘Insorgenze’?
L’aspetto più inquietante del dibattito sulla sentenza dell’Aja, però, è costituito dalla progressiva cancellazione di quelle ‘grandi divisioni’ – tra etica e politica, tra diritto ed economia, tra scienza e religione – che costituivano l’orgoglio del vecchio liberalismo. Nell’ottica dei suoi grandi teorici e dei suoi grandi giuristi, il diritto penale investe, per così dire, gli individui: se è stato commesso un delitto, bisogna dimostrare che a commetterlo è stato il Signor Tal dei Tali e se ci sono prove sicure a suo carico il reo deve essere ospitato gratuitamente nelle patrie galere. Sennonché, a costo di essere brutale, chiedo:« che c’entro io con le vittime di Graziani? non solo non ero ancora nato ma se fossi nato non ne avrei saputo nulla». E dirò di più: «Cosa c’entrava mio padre , allora militare di leva ma in Africa settentrionale e che venne a sapere delle stragi soltanto dopo la caduta di Mussolini?». Che la colpa dei padri debba ricadere sui figli può avere senso – e, a mio avviso, ne ha – all’interno di una comunità religiosa ma non ne ha alcuno nello stato laico e secolarizzato.
Autentico liberale, il giudice Hisashi Owada ha auspicato che si arrivi al risarcimento delle vittime di Civitella o dei loro eredi tramite un negoziato diretto tra l’Italia e la Germania. Si è fatta dell’ironia su questo ‘contentino’ ma a torto. La responsabilità giuridica, infatti, è altra cosa dalla responsabilità politica o dalla responsabilità morale. La responsabilità politica non è affare di tribunali ma di Stati e di governi. Chi ha votato per Hitler (o per Stalin) non è responsabile, in punto di diritto penale, dei campi di sterminio (o di rieducazione): ha commesso – per ragioni varie, non necessariamente riconducibili a una mens criminale, come ci insegnano gli storici revisionisti, quelli seri, beninteso – un tragico errore, le cui conseguenze civili, sociali, economiche sono ricadute anche su di lui, ma non per questo diventa un delinquente.
Ciò non significa, comunque, negare che, in qualche modo, chi ha contribuito al trionfo dell’Anticristo, debba ‘pagare’: quel ‘senso di colpa’ che, a parte le esagerazioni retoriche e le strumentalizzazioni politiche, si vuole coltivare nei popoli responsabili di ‘crimini contro l’umanità’ ha un valore etico e culturale non sottovalutabile e che vale non solo per i tedeschi ma, altresì, per i turchi massacratori degli armeni, per gli spagnoli, massacratori di amerindi, per gli anglosassoni, massacratori di pellirosse etc.. Anche chi non ha avuto alcuna parte nei crimini registrati negli annali neri della storia, per non essere ancora venuto al mondo, sotto il profilo morale, darebbe prova di una elevata sensibilità se si sentisse colpevole di quanto hanno fatto i suoi padri. Il proprietario della ricca farm, pensando agli antichi abitatori della terra da lui occupata e alla violenza con la quale ne furono scacciati dai suoi antenati, può acconsentire a programmi di assistenza e di sostegno alle tribù ancora sopravvissute nelle Grandi Pianure; allo stesso modo, un tedesco dei nostri giorni, anche se non ancora nato quando Himmler e Kesselring terrorizzavano l’Europa, potrebbe approvare il suo governo che, accogliendo il consiglio di Hisashi Owada, volesse risarcire gli assistiti dell’Avvocato Alboni.
Per parafrasare uno dei maggiori giuristi italiani del Novecento, il diritto è un ponte tra l’etica e la politica. Se se ne tolgono i pilastri della sponda politica, non assisteremo al trionfo della morale ma all’eticizzazione di tutti i rapporti interindividuali, alla rimessa in questione di tutte le decisioni dei governi, presenti e passati, di tutte le posizioni sociali, di tutti i privilegi divenuti legittimi per usucapione etc. Sarebbe l’inferno sulla terra: si dovrebbero riaprire i registri, gli atti governativi, i documenti diplomatici e alla fine si sarebbe costretti a riconoscere, con Bertolt Brecht, che «nessuno è innocente». Non sarebbe l’inizio del ‘potere di tutti’, auspicato dal mite Aldo Capitini,ma l’alba di un potere totalitario consegnato nelle mani di giudici che, per citare Piero Calamandrei, si sentirebbero impegnati non ad "applicare il diritto" ma "a fare giustizia".
E’ da augurarsi che la ricca Germania compia un gesto di generosità verso le vittime italiane del nazismo ma c’inquieta il pensiero che debba farlo, in base alla sentenza di un tribunale… italiano.