Elogio smisurato e un po’ confuso delle minoranze (eticamente corrette)

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Elogio smisurato e un po’ confuso delle minoranze (eticamente corrette)

02 Agosto 2009

Nell’intervista rilasciata a Oreste Pivetta che ripercorre tutta la sua vita, Goffredo Fofi teorizza la necessità delle minoranze etiche per la salute della società, e in particolare della democrazia. Ma che cos’è una minoranza etica? Leggiamo: “La minoranza è il modo di vivere e di agire di quanti non si lasciano manipolare, di quanti vivono una tensione morale interna e sentono la responsabilità dell’agire per e con gli altri, e in particolare con chi è più trascurato; di quanti sanno elaborare rapporti di gruppo, aperti ma solidi e coerenti e, quale che sia il campo in cui applicano le loro energie, portatori di un’esigenza di verità e di giustizia, e dunque di morale.” Nella definizione sono contenuti molti elementi: vediamoli uno per uno.

Prima di tutto, Fofi afferma che sono minoranza coloro che non si fanno manipolare: eredi degli àpoti gobettiani (quelli a cui non la si dà a bere), si autodefiniscono tali, ma non indicano il metodo da seguire perché altri possano imitarli. Risulta chiaro che la minoranza è composta da intellettuali, anche se i produttori di cultura con cui Fofi ha lavorato nel corso degli anni non si identificano con l’intellettuale classico, ma piuttosto con il regista, l’operatore sociale, il cattolico di base, lo scrittore o lo scopritore di scrittori geograficamente anche molto lontani da noi. E, da parte sua, Fofi non è tenero con gli intellettuali: Danilo Dolci e Aldo Capitini (le due figure dalle quali dichiara di avere imparato di più) lo erano, ma in una forma certo molto particolare entrambi.

In secondo luogo, troviamo l’esaltazione della minoranza. A una condizione, però: che sia etica. Le minoranze non-etiche rappresentano solo, a parere di Fofi, interessi ristretti, lobby, minuscole parti della società che si ergono a difendere in modo corporativo se stesse contro gli interessi generali. La minoranza, ripete più volte l’intervistato nel corso del libro, deve restare minoranza, senza cercare di trasformarsi in maggioranza. Il suo compito è quello di provocare, ricordare, lavorare per gli esclusi e i poveri, i dimenticati e gli svantaggiati. La distinzione fra minoranze dotate di etica e minoranze prive di etica, però, non è chiarissima: che cosa distingue le prime, infatti, se non una forte autoconvinzione al riguardo? Come è possibile osservare il possesso di etica dall’esterno, da parte di un osservatore, cioè, che non ne faccia parte? Anche in questo caso, si ha l’impressione che si tratti di una autoinvestitura. Quando è richiesto di indicare in che cosa consiste la motivazione etica, Fofi ricorre al kantiano “Fai quel che devi, accada quel che può” che si preoccupa molto di chi fa, ma molto poco di ciò che accade, e si risolve spesso (come viene rimproverato alla morale kantiana) nel sentirsi personalmente con la coscienza a posto e nel disinteressarsi delle conseguenze delle azioni compiute.

In terzo luogo, le minoranze – afferma Fofi – “sentono la responsabilità di agire per e con gli altri”. “Con gli altri” indica la loro partecipazione a progetti comuni, seppure necessariamente di piccole dimensioni. “Per gli altri”, invece, indica il loro spirito altruista, missionario, l’azione in nome di chi non sa o non può esprimersi. Agiscono al posto dei “trascurati”, che siano handicappati o carcerati, sottoproletari o baraccati, immigrati o extracomunitari. Ma non hanno sempre pensato di comportarsi così gli intellettuali rivoluzionari? Ciò che cambia qui è solo il soggetto in nome del quale agire: per Fofi sono i marginali mentre per l’intellettuale socialista o comunista classico era la classe operaia.

Quarto: il gruppo. Sostiene Fofi: i membri della minoranza “sanno elaborare rapporti di gruppo, aperti ma solidi e coerenti”. Ora, come chiunque può facilmente sperimentare anche senza essere psicologo, i rapporti di gruppo o sono aperti – e di conseguenza uniscono in modo debole e non costrittivo chi appartiene al gruppo consentendogli ad esempio di legarsi ad altri gruppi -, oppure, al contrario, sono solidi e coerenti – e di conseguenza impegnano i partecipanti alla fedeltà al gruppo e a ciò in cui il gruppo crede, vietandogli al contempo una curiosità eccessiva per la realtà esterna. Diciamo che quello espresso è più un desiderio che una descrizione: sarebbe bello se accadesse, ma in genere non accade.

Quinto: in qualunque campo nel quale operino, sostiene l’intervistato, i membri della minoranza devono essere “portatori di un’esigenza di verità e di giustizia, e dunque di morale”. Vorremmo rivolgere una sola domanda a Fofi: chi decide se l’esigenza portata dai membri della minoranza è un’esigenza di verità? Chi decide se è un’esigenza di giustizia? La morale, ci sembra, non equivale alla verità sommata alla giustizia: è altra cosa, è morale, appunto, e non ha niente a che fare con il vero e il falso. Dalla descrizione della minoranza che offre Fofi, il suo aspetto risulta più quello di una setta di fanatici fondamentalisti convinti di essere nel giusto e sempre in bilico fra politica e antipolitica che non di una piccola comunità sollecita del bene degli umili: quando, infatti, un gruppo ritiene di avere dalla sua parte verità, giustizia e morale, è meglio tenersene alla larga.

La minoranze etiche trovano la loro giustificazione nella realtà in cui viviamo: realtà che è orribile e prepara orrori ancora maggiori. Sono molto gustose tutte le pagine (molte) in cui Fofi se la prende con una “zona grigia” (un tempo si diceva “maggioranza silenziosa”) omologata nella quale i ricchi hanno imposto ai poveri i loro valori e il loro stile di vita, con il modello americano che ha stravinto, con la politica della quale ha un giudizio tutt’altro che positivo, e in particolare, all’interno della politica, con le varie parti della sinistra, con tutti i suoi leader, partiti e partitini deludenti e ai quali gli elettori hanno per anni affidato voti che sono stati mal utilizzati.

Ma ciò che emerge è una immagine del presente e del futuro senza scampo, senza speranza, nella quale il mercato ha trionfato su tutto il resto e anche le idee si trasformano in merci. Di contro, troviamo una idealizzazione degli anni che vanno dal dopoguerra agli anni sessanta, in particolare dal 1943 al 1963. L’anti-populista Fofi scrive: “Allora un popolo c’era ed era bello sentirsene parte.” E ancora: “Gli anni tra il ’43 e il ’63 preludevano ad altro, furono belli perché l’Italia era ancora bella, c’era un popolo in cui credere, classi sociali in lotta o per cui lottare, e in politica c’erano tante persone per bene con cui confrontarsi.”

Non è un caso che il personaggio principale di queste pagine sia Pier Paolo Pasolini: quando il regista, scrittore e poeta era vivo, i due non andavano affatto d’accordo. Fofi rimproverava a Pasolini la mancanza di analisi di classe, la mancanza di distinzione fra borghesi e proletari, l’immagine oleografica dei sottoproletari e di un popolo mitizzato e inesistente, l’incomprensione del presente e del Sessantotto; Pasolini rimproverava a Fofi una visione schematica e neo-zdanoviana della cultura.

Ora le considerazioni svolte all’epoca da Pasolini – quelle che considerava radicalmente sbagliate – appaiono a Fofi lungimiranti perché “previde le forme di alienazione corruzione violenza cui stava portando lo sviluppo nell’Occidente industrializzato, corrompendo via via tutto il mondo”.

Non è necessario essere inguaribili ottimisti per trovare le sensazioni di Fofi sul mondo attuale e su quello appena trascorso non solo tagliate con l’accetta, ma paradossali rispetto alle sue stesse analisi di un tempo. Gli anni della Guerra fredda possono apparire un’epoca nella quale le parti erano chiare solo se il presente e il cambiamento inevitabile dei tempi risulta estraneo e incomprensibile.

La vocazione minoritaria. Intervista sulle minoranze a cura di O. Pivetta, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 165, euro 12