Eluana e l’accanimento giudiziario
08 Aprile 2016
Eluana Englaro è morta ormai da anni, ma la sua scomparsa è rimasta un’intollerabile, bruciante sconfitta per chi ha sostenuto e sostiene il “diritto a morire”, per chi voleva utilizzare quella morte come un caso giudiziario costruito a tavolino allo scopo di introdurre l’eutanasia in Italia. L’appassionata battaglia politica con cui si è tentato di salvarle la vita non è stata vana, anche se non è riuscita allo scopo, e il fatto che i tribunali continuino, a distanza di tanto tempo, a sfornare sentenze ne è, in un certo senso, la dimostrazione.
Che il caso Englaro fosse stato pensato e organizzato sul modello di altri casi eutanasici non è una mia tesi: l’ha scritto, con tranquilla sincerità, uno dei protagonisti in ombra della vicenda, Maurizio Mori, in un libro pubblicato qualche mese prima della morte di Eluana. Nel libro si racconta dell’incontro, nel 1995, tra gli Englaro e Carlo Alberto Defanti, primario neurologo all’ospedale di Bergamo e presidente della Consulta di bioetica, laicissima associazione culturale tra i cui obiettivi c’è anche, appunto, l’eutanasia.
Dopo il colloquio Defanti telefona a Maurizio Mori, suo amico e poi presidente della stessa Consulta, e racconta così l’incontro: “Sono persone capaci e di solide convinzioni, dotate anche di discreta cultura: forse sono in grado di portare avanti un ‘caso’ come quello di Nancy Cruzan o di Tony Bland”. Mori spiega la valenza politica dell’impegno per arrivare alla sentenza che deciderà la morte di Eluana, e ringrazia anche il giudice Amedeo Santosuosso, che mise a disposizione la solida conoscenza delle esperienze internazionali maturata in anni di studio e di contatti diretti in vari paesi: senza le riflessioni di carattere giuridico di Santosuosso, forse il caso Eluana non avrebbe mai spiccato il volo”.
Eluana non c’è più, come si sa è morta sola, senza nessuno che l’amava accanto, né il padre né altri, in una stanza blindata di una casa di riposo di Udine. In questi giorni una sentenza postuma, ormai davvero surreale, assegna un risarcimento di 142.000 euro alla famiglia, di cui 100.000 per “danno da lesione di rapporto parentale”. Il pronunciamento è del Tar lombardo, ed è rivolto contro la regione Lombardia, che all’epoca, rappresentata dal governatore Formigoni, si rifiutò di mettere a disposizione un ospedale pubblico per togliere a Eluana acqua e cibo e farla morire. Bisognerà leggere la sentenza con attenzione per capire di quale danno si tratti.
Eluana è stata accudita con straordinario amore dalle suore di una casa di cura a Lecco, senza spese per la famiglia, ed era impensabile che le stesse suore, che hanno insistentemente pregato il padre di lasciarla alle loro cure, la facessero morire per disidratazione, staccandole il sondino. Formigoni, secondo i magistrati, avrebbe dovuto però individuare un luogo dove questo potesse accadere, nella stessa regione.
All’epoca, nonostante le incaute offerte di alcuni governatori, come la piemontese Bresso, nessuno, sia tra gli amministratori che tra i responsabili sanitari, voleva applicare la sentenza nella propria regione o struttura. Ricordiamo per tutti il no di Enrico Rossi per la Toscana, e la stessa Bresso non poté mettere in atto concretamente la proposta. Il motivo era semplice: il sistema sanitario italiano non è costruito per far morire, ma per curare, guarire (se possibile) e far vivere le persone; applicare la sentenza della Corte d’appello, con i suoi macabri dettagli sull’umidificazione delle mucose durante la disidratazione, implicava una serie di violazioni, anche gravi, delle procedure e delle regole. Per far morire Eluana a Udine, infatti, fu costruito, sempre a tavolino, un luogo ad hoc, una sorta di isola autonoma fuori dal sistema sanitario nazionale, ai confini della legalità.
Alcuni giudici oggi sostengono il contrario. E ritengono che la Lombardia avrebbe dovuto mettere a disposizione una struttura nonostante tutto, e che non averlo fatto avrebbe danneggiato la famiglia. La Regione probabilmente impugnerà la sentenza, e la storia non è ancora conclusa, ma oggi la volontà di una parte della magistratura di insistere sulla morte come diritto si incrocia con un parlamento e un governo assai più disposti a recepire i “nuovi diritti”, abbandonando il principio della sacralità della vita umana. In Parlamento di discute di testamento biologico e di eutanasia, e se qualche giudice volesse segnare il gol e arrivare prima della politica, ormai deve fare presto.