Empirici e teologi: la Draghinomics e il governo della realtà (di G. Quagliariello)
04 Luglio 2021
Le ideologie sono morte e pure il pensiero, in politica, non si sente troppo bene. Per scindere la loro sorte e non rischiare di gettar via il pensiero con l’acqua sporca delle ideologie, converrà riproporre una differenza di mentalità che ha attraversato la riflessione politica sin dai tempi di Aristotele e Platone, che ha tagliato trasversalmente le differenti correnti politiche e che è utile a comprendere perché noi siamo dalla parte di Draghi mentre ci siamo opposti a tutti i governi che in questa legislatura l’hanno preceduto.
La distinzione è quella tra empirici e teologi. E cioè tra quanti partono dalla realtà, riflettono sulla sua oggettività e provano a comprendere, umilmente, come migliorarla; e quanti, invece, partono da presunti ma asseritamente imprescindibili assunti morali in nome dei quali pretendono di plasmare la realtà qualunque essa sia. Questa differenza di fondo riguarda la mentalità, la sensibilità, il modo di porsi di fronte a un problema. Per questo essa resiste al tramonto di ideologie, partiti, mode più o meno passeggere. Tutte queste cose possono infatti finire ma la testa degli uomini è più dura a morire.
La distinzione tra empirici e teologi ha segnato la storia del pensiero politico; ha solcato trasversalmente le grandi correnti politiche ponendo, ad esempio, da una parte i comunisti e dall’altra i socialisti riformisti; da un canto i liberali giacobini e dall’altro i liberali anglosassoni; su un versante i cattolici integralisti dall’altro i cattolici popolari. Quando ancora c’erano i partiti, era questa la cesura che quasi sempre si trovata alla base delle divisioni interne: massimalisti vs possibilisti.
Poi, col nuovo secolo, il pensiero si è indebolito. Anche per questo, spesso e volentieri, l’empiria è divenuta la foglia di fico che ha coperto il malaffare. E, per la stessa ma speculare ragione, si è andati avanti per presunti imperativi morali i quali, nella oggettività dei fatti, hanno veicolato politiche che non hanno retto alla prova della realtà. Valga per tutti l’esempio del reddito di cittadinanza. Per come è stato formulato è stato il succedaneo del voto di scambio di meridionale memoria (che in mancanza di risorse pubbliche non poteva esser più praticato). Si sta dimostrando un disastro perché in una fase di forte espansione post-pandemica sta privando molti settori della nostra economia della necessaria forza lavoro (chi accetta un’occupazione anche a 1500 euro al mese se senza far niente ne può guadagnare quasi 800 e integrare il tutto con tre giorni di lavoretti in nero?). Nondimeno, quella riforma che rischia oggi di essere un freno alla ripresa fu spacciata come l’abolizione della miseria…
Gli esempi si potrebbero moltiplicare e potrebbero essere pescati in abbondanza dall’archivio dei provvedimenti sia del primo che del secondo governo Conte. A noi sembra che rispetto a quella fase si sia cambiato registro, sia nel modo di pensare sia nel tradurre quel pensiero in atti e provvedimenti concreti. Soffermiamoci su alcuni esempi tratti dall’attualità.
Nei giorni scorsi, parlando all’Accademia dei Lincei, il presidente del Consiglio ha tracciato il quadro economico del nostro Paese nel recente passato, nel presente e nell’auspicabile futuro. Ha ricostruito come di fronte alle drammatiche conseguenze di restrizioni sanitarie inevitabili l’alternativa fosse fra una severa recessione e una profonda depressione. Ha chiarito come per favorire la prima rispetto alla seconda opzione non vi fossero grandi alternative a un ulteriore indebitamento del nostro Paese. Ha spiegato che per rendere la situazione sostenibile questo debito deve essere “buono”, e cioè non sprecato in misure improduttive (come troppe volte accaduto in passato) ma impiegato per spingere la crescita a un tasso strutturale a quello ante-Covid, determinando domanda aggiuntiva per le imprese e gettito per le casse statali. Empirico, contro i “teologi” di opposto segno: quelli che di fronte alla pandemia predicavano una sorta di darwinismo economico senza rendersi conto delle proporzioni della crisi che sarebbe arrivata, e quelli per i quali il debito è cosa buona e giusta a prescindere dall’utilizzo che se ne fa.
Dalle enunciazioni, sempre limitandoci agli ultimi giorni, passiamo a qualche esempio tratto dai più recenti provvedimenti governativi. Lo sblocco dei licenziamenti con alcune meditate eccezioni settoriali e previo accordo con le parti sociali, nell’assunto che a nessun imprenditore – ovviamente – piace licenziare. L’avvio della riforma del codice degli appalti, poderoso freno burocratico a qualsiasi ambizione di ripresa. Il blocco per altri due mesi dell’invio delle cartelle esattoriali. Un fondo per contenere i rincari delle tariffe dell’energia elettrica.
Infine, last but not least, la sospensione del cosiddetto “cashback”, e cioè della misura inutile e costosa con la quale il governo giallorosso aveva introdotto un “premio” statale a fronte di transazioni effettuale con moneta elettronica. Chiarisco: io non sono contrario alla diffusione della moneta elettronica e personalmente ne faccio largo uso. Ma l’idea di abolire il denaro contante sostituendolo con i pagamenti digitali mi sembra figlia di quel furore giacobino che sogna di rivoluzionare i comportamenti sociali sulla base di un’interpretazione teologica della storia, senza mai fare i conti con la realtà empirica: il tema, come vedete, si ripropone. Ragionando empiricamente ci sono almeno tre questioni da mettere all’ordine del giorno: il fatto che una parte degli italiani vive con fastidio la imposizione dei pagamenti digitali, e ampie fasce di popolazione abbiamo difficoltà nel loro utilizzo ad esempio per ragioni anagrafiche; le ricadute negative soprattutto in termini occupazionali su una parte del nostro sistema imprenditoriale messo in ginocchio dalla crisi pandemica; infine un’esigenza di riduzione della spesa.
Provvedimenti come il cashback di Stato annunciati come rivoluzionari si sono rivelati altrettanto costosi. Empiricamente la riffa è stata sospesa (si spera per non farla tornare mai più), ma in parallelo è stato portato dal 30 al 100 per cento il credito d’imposta sulle commissioni sui pagamenti elettronici addebitati agli esercenti che entro il giugno 2022 si dotino del Pos o ne facciano uso. Qualcosa di assai meno demagogico e concretamente utile al sistema produttivo.
Per tutte queste ragioni, per un passerotto empirista che in questi anni abbia provato a resistere a fronte della rapacità delle aquile teologhe, l’attuale presidente del Consiglio ha rappresentato una “divina sorpresa”. E, per le stesse ragioni, sarebbe bene che la sua esperienza governativa continui almeno fino a quando si possa essere sicuri che l’occasione rappresentata dal PNRR non vada sprecata. Per questo c’è bisogno che una forza politica in grado di comprendere e interpretare il cambiamento di mentalità che guida le scelte del governo si strutturi al più presto e cresca nel Paese.
A questo proposito, un’ultima cosa vale la pena dirla ed essa riguarda l’attuale coalizione di centrodestra. Abbiamo letto che Salvini e Meloni hanno sottoscritto il manifesto dei sovranisti europei. Noi non ci riconosceremo mai in questa categorizzazione; più precisamente, la riteniamo priva di senso. Non certo perché Orban sia brutto e cattivo. E nemmeno perché non siamo convinti, anzi certi, che la sovranità sia una cosa importante e seria. Ma perché, per l’appunto, essa è un concetto empirico e approssimativo che dipende dalle condizioni storiche e geopolitiche, non è un concetto teologico. La sovranità totale, infatti, non esiste. Essa è limitata anche da un trattato bilaterale. La sua difesa, più che a manifesti ideologici, è assicurata da politiche estere consapevoli e assennate. Quelle, ad esempio, che ti portano a privilegiare la solidarietà del mondo atlantico rispetto alla Cina.