Enzo Forcella e la politica vaticana durante il fascismo

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Enzo Forcella e la politica vaticana durante il fascismo

27 Maggio 2007

Nei giorni in cui infuriava la polemica fra il Vaticano e lo Stato di Israele a proposito della presentazione della figura di Pio XII allo Yad Vashem, mi è capitato di leggere un vecchio libro, in cui si rifletteva su questioni analoghe: si tratta del volume postumo di Enzo Forcella, La Resistenza in convento, pubblicato dall’editore Einaudi  nel 1999. L’autore è stato uno dei più noti giornalisti italiani del secondo Novecento, collaboratore del «Mondo» di Pannunzio, di «Tempo presente» di Chiaromonte e Silone, e – fin dalla fondazione – fra le firme di punta della «Repubblica» di Eugenio Scalfari. Non si tratta del suo primo libro: i miei coetanei ricordano ancora la sua Apologia della paura compresa in Plotone di esecuzione, da lui pubblicato con Alberto Monticone nel 1968 e dedicato ai processi della prima guerra mondiale. Un grande successo, allora, non eguagliato (mi sembra) dal successivo Celebrazione di un trentennio del 1974, riflessione tutt’altro che scontata sui primi trent’anni della repubblica. Ma decisamente assordante è stato il silenzio che ha circondato La Resistenza in convento: sarà perché è uscito postumo, o per le tesi non proprio ortodosse che Forcella vi esprimeva su alcune questioni controverse, come l’azione gappista di via Rasella (nel merito era intervenuto anche in un articolo sul «Corriere della sera» del 10 marzo 1998).

La sua tesi di fondo è che la Santa Sede, con una politica condotta spesso sul borderline della “dissimulazione onesta”, riuscì a proteggere e a salvare nei conventi, nei monasteri, nelle chiese di Roma e nella Città del Vaticano (con le sue appendici protette dalla extraterritorialità) praticamente tutta la classe dirigente politica e intellettuale italiana (dell’Italia passata e di quella futura), presente a Roma dopo la fuga del re e l’occupazione tedesca, eccezion fatta (ma non completamente) per la componente comunista, che preferì organizzare autonomamente la propria sicurezza. Si tratta di una questione che gli storici ecclesiastici hanno per decenni sottolineato, ma la novità è che in questo caso essa sia stata ribadita, sviluppata e magistralmente narrata da un giornalista “laico” e al di fuori di ogni intento apologetico.

Di questa lunga protezione i futuri leader della Repubblica avrebbero parlato poi parcamente e malvolentieri: il giornalista segnala come esemplare il caso di Pietro Nenni, il cui diario di quel periodo, nell’edizione fattane da Giuseppe Tamburrano, presenta un “buco nero” di oltre sei mesi (p. 114). E’ tuttavia indubbio che questa contiguità con gli ambienti ecclesiastici nei mesi più duri dell’occupazione tedesca avrebbe avuto effetti di lungo periodo sulla nuova classe dirigente. Anche per questo (ovviamente non solo) non si ebbe, al momento della liberazione, quella ventata di anticlericalismo che tutto il fuoriuscitismo antifascista aveva data per certa all’indomani della stipulazione dei Patti lateranensi: uno dei pochi senatori che nel 1929 avevano votato contro la loro ratifica, il liberale Alberto Bergamini, lo avrebbe scritto a chiare lettere in una lettera di ringraziamento rivolta alla segreteria di stato vaticana: «Quando potrò nuovamente scrivere dirò di questa carità: sono certo che per cento anni non vi potrà essere anticlericalismo in Italia; sarà impossibile dimenticare quello che ha fatto il Clero» (p. 124). Sarebbe stato coerente: nel 1947, smentendo in qualche modo il suo voto di diciotto anni prima, avrebbe votato a favore dell’art. 7 della  nuova Costituzione.

Paradossalmente la Santa Sede poté mettere in atto questa rischiosa azione, basandosi su uno dei più discussi (allora e poi) articoli del Concordato del ‘29 (art. 1, comma 2), quello che stabiliva il «carattere sacro della Città Eterna, sede del Sommo Pontefice, centro del mondo cattolico e meta di pellegrinaggi», e rispolverando quel diritto d’asilo, che le leggi Siccardi avevano abolito nel Regno di Sardegna quasi un secolo prima. Al di là degli intenti umanitari, l’azione vaticana rispondeva anche a corposi interessi politici, non ultimo quello di impedire un’insurrezione a guida (presumibilmente) comunista al momento del passaggio dei poteri fra i tedeschi in fuga e l’arrivo degli alleati. Anche in ciò il Vaticano ebbe successo, nella quasi unanime soddisfazione della popolazione capitolina.

Forcella guarda con non dissimulata simpatia e (si direbbe) gratitudine a questa complicata politica, che presenta tratti di inevitabile ambiguità: descrive minutamente una situazione in cui due mondi (quello vaticano e quello di tedeschi e fascisti) furono «incommensurabilmente lontani e inconciliabili, ma al tempo stesso comunicanti attraverso una fitta rete di collegamenti più o meno segreti che i futuri storici sarebbero riusciti solo molto parzialmente a individuare e spiegare» (p. 61). Questa assenza di moralismo consente a lui che era nato a Roma da madre ebrea, di fare alcune analisi in controtendenza (almeno rispetto alla situazione degli anni ’90) anche sulla questione del rapporto fra la Santa Sede e gli ebrei romani. Ribadisce un dato quantitativo, che – già di per sé – non può che far riflettere: «dei 12.000 presuntivamente presenti a Roma durante l’occupazione, l’80 per cento riuscì a evitare la deportazione in gran parte proprio grazie all’ospitalità degli istituti religiosi» (p. 65): altre fonti presentano numeri diversi, ma la percentuale resta più o meno la stessa. Ripercorre tutta una serie di episodi, che la storiografia ha minutamente vagliato e discusso, soprattutto l’atteggiamento pontificio durante e dopo il 16 ottobre 1943, di fronte alla deportazione da parte tedesca degli ebrei romani. Rilegge con molto buon senso storico il famoso e più volte sviscerato colloquio fra il segretario di stato Maglione e l’ambasciatore tedesco Weizsäcker e ribadisce la manipolazione delle posizioni vaticane che quest’ultimo operò nei suoi dispacci ai superiori a Berlino, dispacci che sono stati alla base di molte delle accuse rivolte poi a Pio XII. Anche qui Forcella mette in atto il buon metodo storico, che non si fida delle relazioni degli ambasciatori, ma ne vaglia la veridicità sulla base delle intenzioni di chi li scrive (e una degli interessi fondamentali di un diplomatico è quello di dimostrare il successo della propria azione verso il governo presso cui è accreditato). Il giornalista romano dà quasi per certo (al contrario di altri storici) che i 252 non ebrei o (come allora si diceva) «mezzi ebrei» (ma in mezzo ad essi riuscirono a intrufolarsi anche alcuni ebrei) che furono lasciati liberi la mattina del 17 ottobre, dopo essere stati “rastrellati” il giorno precedente, dovettero la loro liberazione alle pressioni  vaticane e proprio al comportamento «cauto» che la segreteria di stato aveva tenuto il giorno precedente. E non manca di polemizzare esplicitamente con Rosetta Loy, una delle più fortunate narratrici di quegli eventi (pp. 100, 103).

Ma è soprattutto un’altra osservazione di Forcella che mi sembra particolarmente acuta: quando nota che tutta questa vasta operazione di protezione e di salvataggio (di ebrei, antifascisti, renitenti alla leva, etc.) fu il frutto di direttive dall’alto, ma date informalmente: «Per tutta la durata dell’occupazione le autorità religiose si atterranno alla loro antica regola: è sempre meglio far capire che dire, se qualcosa deve essere detto è bene evitare di lasciarne traccia scritta e, in ogni caso, alle eventuali contestazioni bisognerà rispondere che si era trattato di iniziative personali dei singoli sacerdoti prese all’insaputa delle autorità superiori» (p. 61). E’ per questo che risulta storiograficamente ingenua la posizione di coloro che esigono la prova di un documento scritto, di una circolare esplicita che dimostri inconfutabilmente che il salvataggio degli ebrei (e degli altri perseguitati) sia stato il frutto di una direttiva di Pio XII, e non, invece, un’iniziativa “privata”, di cattolici, laici e religiosi. Ora – secondo quanto autorevolmente anticipato dal card. Bertone – è possibile che un documento di tale natura possa essere stato recentemente trovato: si tratterebbe di una circolare in data 25 ottobre 1943, con cui il Papa si diceva «d’accordo» nell’accogliere quanti più ebrei possibile negli istituti religiosi e nelle catacombe. E’ interessante notare la data: si tratta dello stesso giorno in cui il Vaticano faceva affiggere agli ingressi delle basiliche maggiori un cartello bilingue che, dopo aver ricordato la dipendenza di quegli edifici dalla Santa Sede, interdiceva «qualsiasi perquisizione e requisizione» e ne dava notizia ai superiori degli enti religiosi con una lettera in cui si raccomandava «quella discreta e prudente correttezza che è sempre, ma ora più che mai, necessaria» (p. 63). Parole che possono essere lette in vario modo, ma – come nota Forcella – alludevano certamente alle dimensioni che ormai il diritto d’asilo aveva assunto.  

Gli studiosi avranno modo di constatare se il nuovo apporto documentario preannunziato dal card. Bertone contribuirà a  chiarire anche la documentazione già nota e potrà costituire una svolta significativa nelle indagini su tutta questa vicenda. Ma, ragionando storicamente e facendo seriamente i conti con la situazione di minorità e di potenziale persecuzione in cui la Chiesa si trovava; con gli obiettivi concreti che si poneva  e con i mezzi che la sua secolare tradizione le metteva a disposizione per raggiungerli, si può già avere un quadro, ricco quanto si vuole di   ambiguità e contraddizioni, ma – come dimostra anche questo volume –  dalle linee sufficientemente chiare.