Erdogan festeggia la vittoria con 25 miloni di dollari di Teheran

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Erdogan festeggia la vittoria con 25 miloni di dollari di Teheran

16 Settembre 2010

Erdogan ha stravinto, per la quarta volta, il consenso popolare, però le metropoli della Turchia europea (Istanbul, Smirne Antalya) gli hanno votato contro e – ultimo, ma non per ultimo – il grande blocco sociale laico e modernista della Turchia non ha una sua rappresentanza politica adeguata: questi sono i tre punti chiave dell’analisi del voto referendario per le modifiche costituzionali appena concluso nel paese.

A corollario, va ribadito che – al solito – l’Unione Europea continua a non comprendere – a non voler comprendere – nulla del contesto islamico, tanto che ha appoggiato tutte le riforme costituzionali che Erdogan – sollecitato da Bruxelles – da anni ha attuato, minando così alle fondamenta il carattere laico dello Stato turco. Un quadro complesso, che vede consolidarsi ed emergere sulle sponde del Mediterraneo un fenomeno di grande interesse: la formazione, per la prima volta nella storia, di un blocco sociale che fa dell’Islam un valore identitario forte e che si innerva non solo nelle plebi agricole urbanizzate (e spesso marginali), ma anche e soprattutto – questa è la novità – in un ampio strato di piccoli e grandi industriali, che stanno modernizzando l’Anatolia, pur restando saldamente attaccati alla tradizione e alla religione.

Un blocco sociale, si noti bene, che riesce a diventare egemonico in un grande e complesso paese quale è la Turchia. Il tutto, mentre i tradizionali partiti espressione del blocco sociale laico, sia di centrodestra che di centrosinistra, diventano sempre più marginali, scialbi, incapaci di intercettare consenso (pure, sino al 2003 ottenevano il 60-80% dei consensi, nel complesso, in un regime di alternanza), così come di esprimere leadership forti, sulla scia di figure un tempo carismatiche come furono Demirel o Escevit. Una deriva, quando non un fallimento, non spiegabile solo con la perdita di credibilità per i fenomeni di corruzione dilagante che avevano caratterizzato gli ultimi governi da loro espressi negli anni di fine millennio.

In teoria, il fenomeno potrebbe essere considerato anche positivo – come fa l’Ue – così come dovrebbe essere considerato con  favore il fatto che i generali turchi hanno perso quasi tutto il loro potere politico e con esso le forti venature autoritarie imposte per 90 anni al paese, vuoi nella gestione della questione curda, vuoi nella gestione dell’ordine pubblico. In pratica, non è così. La controprova è sotto gli occhi di tutti: non appena Erdogan ha assunto il pieno controllo delle istituzioni turche e ha emarginato – con le riforme attuate negli anni scorse – il peso politico dei generali, la sua Turchia ha fatto una svolta epocale sul terreno della politica estera. Nell’arco di poche settimane, nei mesi scorsi, abbiamo visto il governo turco sponsorizzare un gruppo paraterrorista – Ihh – che non poteva che condurre il tentativo di forzare il blocco israeliano di Gaza in un bagno di sangue (come è stato), fare saltare quasi del tutto la pluridecennale alleanza con Israele e contemporaneamente –forse questo è il dato più allarmante – dare vita a quella vera e propria manfrina – assieme al Brasile di Lula – sul falso accordo sull’arricchimento all’estero dell’uranio che ha permesso al regime iraniano di farsi letteralmente beffe dell’Onu.

La riforma costituzionale turca che l’Ue ha imposto – e Erdogan entusiasticamente accettato – ha dunque subito prodotto una cesura grave nell’assetto del Mediterraneo. La Turchia ha cessato di essere un sicuro baluardo della Nato e un fidato alleato di Israele e ha avviato una politica corsara, di fiancheggiamento scoperto del regime assassino di Teheran dagli evidenti aspetti avventuristici. Il tutto, assicura il Telegraph, avendo Erdogan ricevuto in premio ben 25 milioni di dollari da Ahmadinejad come finanziamento per il suo partito, l’Akp. Notizia seccamente smentita da Ankara, e però pleonastica. Il punto è che Erdogan si comporta esattamente come se li avesse ricevuti e se lo fa per coincidenza politica, invece che per interesse, è ancora peggio.

Sul piano interno della Turchia, la cesura è stata meno netta, ma non può sfuggire il fatto che tutti gli arresti di generali e alti ufficiali accusati nei mesi scorsi di fare parte del complotto Energekon sono stati palesemente pretestuosi e sintomo di una tendenza autoritaria dell’islamismo al potere. Il fatto stesso – come si è detto – che le metropoli turche organicamente inserite nel contesto europeo, sia dal punto di vista sociale, che produttivo e finanziario, abbiano votato contro Erdogan e per il mantenimento del potere politcio dei generali (quindi contro la riforma costituzionale) dovrebbe far comprendere all’Ue che c’è qualcosa che non va nella sua politica. Ma così non è. Bruxelles continua a credere che si possa riformare una società e uno Stato in alveo islamico, usando gli stessi “parametri di Copenhagen”, enucleati da Bruxelles nel 1992 per fare entrare nel contesto europeo le nazioni europee sottoposte per decenni all’imperialismo sovietico e con istituzioni modellate sul socialismo statalista. Una follia.

In realtà, l’intero processo di democratizzazione della Turchia dal 1922 in poi, si è sviluppato solo e unicamente grazie all’attribuzione di un potere politico enorme ad un esercito che si era conquistato sul campo il suo prestigio riuscendo nell’impossibile impresa di mantenere indipendente e unita la nazione durante la spaventosa guerra contro la Grecia, promossa dall’Inghilterra nel 1920-22. Solo la radicale de islamizzazione dello Stato, voluta da Kemal Ataturk, inclusa la violenza della sostituzione dell’alfabeto arabo con quello latino, garantita dai generali, accompagnatasi poi negli anni cinquanta con l’ingresso del paese nella Nato (e quindi con la formazione dei generali in occidente), hanno prodotto il miracolo di una Turchia che è l’unico – assolutamente unico – paese musulmano a democrazia stabile e compiuta.

Ora, con le riforme costituzionali volute dall’Ue e entusiasticamente accettate da Erdogan, quel percorso virtuoso (non privo di un forte autoritarismo, sempre però declinante, in un cammino riformista ininterrotto), è stato bloccato e l’Islam politico può modellare a suo piacere lo Stato privo del suo presidio di laicità. La Turchia può diventare qualsiasi cosa. Di sicuro diventerà uno Stato con istituzioni sempre più contagiate dalla Sharia. E’ probabile che sul piano interno svilupperà le stesse modificazioni (e involuzioni) che ha seguito sul piano estero. Il fascino che Erdogan dimostra di provare per i regimi autoritari dell’Iran e della Siria, come per la Gaza di Hamas non è certo neutrale. Inshallah, dunque, sia fatta la volontà di Dio. E speriamo bene.