Esami di maturità: apoteosi di una scuola statalista e ideologizzata
23 Giugno 2017
L’enfasi parossistica che ogni anno, puntualmente, viene riservata agli esami cosiddetti “di maturità” è una delle più eloquenti dimostrazioni del conformismo che pervade la società italiana. Fiumi di retorica dolciastra, ricordi commossi di personaggi più o meno illustri, trepidazione per le sorti dei giovani impegnati nella prova, discussioni accanite su tracce (o “traccie”, come nell’era della attuale ministra), versioni, problemi, equazioni “erogati” dagli appositi uffici governativi. Tutto ciò farebbe ridere, se non facesse piangere. Tanto rumore, tanta emozione, tante polemiche per un istituto totalmente inutile: un esame in cui vengono promossi 96 studenti su 100 (e i pochissimi bocciati sono quasi sempre non frequentanti o provenienti da istituti privati di recupero). Questa annuale farsa, come di consueto, si chiuderà con una cascata di voti altissimi generosamente dispensati agli eroici “cuori di mamma” da insegnanti adoranti: tanto alti da far pensare che l’Italia sia un paese, oltre che di santi, poeti e navigatori, di precoci geni. Salvo che poi tanti di quegli stessi geni, alle loro prime prove universitarie, infarciranno prove scritte e mail ai docenti di terrificanti strafalcioni grammaticali e persino ortografici, e si dimostreranno incapaci di compilare correttamente anche un semplice curriculum.
In realtà tutto il pomposo apparato della “maturità” non rappresenta soltanto una costosa presa in giro, attraverso la quale si tenta di celare la qualità sempre più scadente del sistema scolastico italiano. Esso rappresenta innanzitutto la sintesi perfetta di una concezione statalista, burocratica, autoritaria, corporativa della scuola che continua a dominare pressoché incontrastata nel nostro paese, producendo danni incalcolabili sul livello culturale della società e sulla psicologia collettiva. Una concezione che affonda le sue radici fin nella genesi centralistica dello Stato unitario, che fu portata alle estreme conseguenze dalla dittatura fascista e che è rimasta in vigore, in forme solo apparentemente più blande, nell’epoca “partitocratica” repubblicana. In questa logica l’obiettivo primario del sistema scolastico non è il conseguimento del più alto livello culturale possibile negli studenti, ma quello di “fare gli italiani“: nel senso tutto strumentale di formare, attraverso programmi e direttive che inseriscono la formazione strettamente all’interno di una cornice retorico-propagandistica, una società composta di individui culturalmente “conformi” all’indirizzo politico dello Stato. È, insomma, l’indottrinamento ideologico degli studenti (e delle loro famiglie) da parte delle classi dirigenti attualmente al potere.
A tale obiettivo si è andato poi aggiungendo nel corso del tempo, con un peso sempre maggiore, quello di utilizzare la scuola statale – fondata sul monopolio statale del valore legale del titolo di studio e sull’equiparazione degli insegnanti a impiegati dello Stato – come una tra le più grandi miniere di posti di lavoro pubblici, fonte inesauribile – soprattutto al Centro-Sud – di consenso politico ed elettorale. Sicché, le due tendenze si sono gradualmente saldate in un viluppo inscindibile, in una catena di conformismo che comincia dai programmi ministeriali, prosegue con le procedure di reclutamento dei docenti di ogni ordine e grado (concorsi, graduatorie, assunzioni ope legis, scuole di specializzazione), sfocia infine nell’attività pratica dei docenti a scuola, nella quale non a caso maggioranze politiche, governi e ministeri succedutisi negli ultimi decenni tengono costantemente a sottolineare l’importanza dell’aspetto “formativo” rispetto alla pura e semplice “istruzione” (leggi: è più importante indottrinare gli alunni che insegnare loro a leggere, scrivere, far di conto, e in generale a conoscere i contenuti delle varie discipline). Insomma: si recluta un esercito di docenti fidelizzati al Leviatano statal-governativo dall’idolatria del “posto” pubblico inamovibile, e li si addestra a “formare” i giovani all’ideologia che rende più facile la perpetuazione del potere assoluto del Leviatano stesso.
Almeno da un cinquantennio questa ideologia si è definita monoliticamente, al di là dell’effimero succedersi di governi di diverso orientamento politico, come un’ideologia “di sinistra“. Intendendo con ciò un blocco dogmatico incentrato su una versione aggiornata dello “Stato etico” gentiliano e del “moderno Principe” gramsciano, secondo cui, in sintesi, il pluralismo sociale, culturale ed economico è pericoloso, e soltanto l’illuminata regia dello Stato può assicurare la convivenza civile e il progresso. A partire dall’iniziale nucleo marxista, questo blocco dogmatico si è più volte ridefinito ed aggiornato, assorbendo ed egemonizzando ai suoi fini tutti i più vari fermenti movimentisti emersi dagli anni Settanta ad oggi – dal terzomodismo all’ecologismo, ai vari rivoli del liberazionismo sessuale oggi confluiti nel relativismo “gender” e nel libertarismo “biopolitico”. Attualmente il principale compito affidato ai docenti della scuola di Stato è quello di una “formazione” rigidamente inserita nei canoni del progressismo “politically correct“, imperniato sulla mitologia onnicomprensiva dei “diritti” ad ogni livello e della “sostenibilità” ambientale, la cui difesa (contro l’etica del profitto, della sussidiarietà, dell’iniziativa individuale, dell’autonomia della società) dovrebbe essere naturalmente affidata sempre al monopolio del benigno “principe” statale/centralista, oggi proiettato anche su scala delle istituzioni europee e globali. In un quadro del genere, non a caso, c’è sempre meno spazio per la scuola libera, per voci dissonanti, per un’impostazione autenticamente pluralista della cultura. L’iniziativa privata nel sistema formativo viene ostinatamente combattuta ed ostacolata in ogni modo dalle forze politiche, intellettuali, sindacali, burocratiche legate al blocco del potere statolatrico come se fosse un pericolo per la democrazia, che i corifei dello statalismo “formativo” sostengono sia garantita solo dall’assoluta uniformità all’impostazione dirigista.
Di tale edificio rigidamente accentrato, gli esami di maturità rappresentano, dunque, il massimo suggello, il culmine pratico e simbolico: la “cerimonia di iniziazione” attraverso la quale gli studenti delle scuole secondarie superiori ricevono la sanzione della propria “affiliazione” al sistema, e vengono introdotti agli stadi successivi in cui cercheranno di inserirsi nel mondo dell’alta formazione e del lavoro come suoi fedeli “vassalli”. L’attesa maniacale delle “buste” (oggi files) che arrivano in ogni scuola dal ministero, delle tracce uguali su tutto il territorio nazionale, ha esattamente come sua precipua funzione quella di consacrare e sottolineare al massimo questo atto di vassallaggio. Ed è logico dunque che i temi scelti dal ministero per le prove – nelle materie umanistiche ma anche in quelle matematiche e di scienze naturali – dovranno contenere necessariamente alcuni segni importanti del corpus ideologico e dell’assetto di potere che essi rappresentano. Come è accaduto, appunto, quest’anno, con la poesia di Caproni, selezionata non certo per il suo valore letterario, ma esclusivamente perché è un esempio di retorica ambientalista antiumanista e anticapitalista, ben accordata con l’autoritarismo del Leviatano scolastico. E anche con gli altri brani e le altre citazioni proposte agli studenti, che nella loro varietà convergono sulla rappresentazione pessimistica della “società aperta” e dell’economia di mercato, che evidenzia soprattutto i loro presunti effetti distruttivi rispetto alla coesione sociale e all’equilibrio ambientale.