Evviva le correnti del Pdl! Solo se Fini fa pace con se stesso e col suo ruolo

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Evviva le correnti del Pdl! Solo se Fini fa pace con se stesso e col suo ruolo

22 Aprile 2010

Alla fine, dopo una gestazione lunga ma soprattutto dolorosa, è finalmente nata. Ieri ha visto la luce la prima corrente interna al Popolo della Libertà. Ovvero la prima corrente di quel soggetto politico che proprio in virtù del suo assetto carismatico, del suo linguaggio innovativo, della sua organizzazione leggera, del suo ideale di “democrazia degli elettori” contrapposto a quello della “democrazia dei partiti” che aveva dominato la scena per cinquant’anni, ha cambiato in profondità la politica italiana a destra, come a sinistra, come al centro. 

La domanda che sorge spontanea, e che crea disorientamento nella parte di opinione pubblica che ha dato corpo al nuovo corso della politica italiana, è ovvia. Si tratta di un bene o di un male? Ma prima ancora di tentare una risposta è necessaria una considerazione. In realtà, l’evento era inevitabile. A sedici anni dalla rivoluzione berlusconiana che ha portato prima alla nascita di un partito del tutto nuovo (Forza Italia) e poi al battesimo di un partito unico, a vocazione maggioritaria, nel quale si riconoscono i moderati, i liberali e i riformisti, è naturale che le differenti storie e le differenti sensibilità presenti al suo interno comincino a radicarsi ed a strutturarsi politicamente. 

Ma se questo è vero, occorre allora dire che la nascita di una corrente non è – in sé – né un bene né un male. Tutto dipende da come sarà declinata in concreto. Certo, se l’idea dei finiani è quella di tentare di rianimare un modello di partito, di politica e di istituzioni simile a quello che ha dominato gli ultimi trent’anni della Prima Repubblica non ne sentiamo affatto la nostalgia. Erano tempi nei quali l’organizzazione correntizia dei partiti dominava la politica. Nei quali l’organizzazione in correnti si basava su una militare attività di tesseramento (che finiva per ricomprendere anche i defunti). Nei quali la gestione del potere era ancorata ad una rigida ripartizione del potere sulla base di precise percentuali correntizie. Nei quali si teorizzava che, proprio per garantire il precario equilibrio fra le correnti, il Segretario della Democrazia cristiana non potesse essere anche Presidente del Consiglio. 

Ma se tutto questo è vero è vero anche che le correnti politiche possono svolgere anche un ruolo positivo nella vita di un partito, perché – proprio come i partiti rispetto alla politica nel suo complesso – consentono di organizzare le posizioni politiche dei singoli e di veicolare i processi di aggregazione delle opinioni. E ciò è tanto più vero in un grande partito a vocazione maggioritaria come il PdL. Certo la presenza delle correnti dovrà, nel caso di specie, trovare forme e strumenti per essere compatibile con la presenza di una leadership carismatica. Ma non crediamo che fra le due polarità (correnti e leader carismatico) vi sia incompatibilità assoluta. Certo la presenza di un leader carismatico riduce di molto lo spazio per le correnti. Ma è perfettamente compatibile con la presenza di correnti, tipicamente di minoranza, che contestano alcuni aspetti della linea politica ma mantengono una sostanziale lealtà di fondo (basti pensare alla vicenda della sinistra socialista durante la segreteria Craxi del PSI). 

Sul più concreto terreno della politica contingente vi è un altro vantaggio da considerare. Nei primi due anni di legislatura Gianfranco Fini ha sempre mantenuto un atteggiamento di distinzione e distinguo da Berlusconi. Su punti decisivi dell’azione di governo come su aspetti meno centrali ma ai quali lui è riuscito a far assumere forte valenza simbolica (si pensi al tema della cittadinanza) ha spesso marcato una posizione fortemente autonoma. Però, lo ha fatto spesso utilizzando in modo improprio la sua funzione istituzionale, senza assumersene mai fino in fondo la responsabilità politica. Da ieri non è più così. Ha legittimamente gettato via la maschera e rivendicato il proprio diritto di iniziativa politica. Il che non può che essere un bene per la trasparenza della politica italiana. Ma naturalmente la scelta compiuta ha conseguenze impegnative in primo luogo per Fini stesso. E’ infatti evidente che costituirsi in corrente di minoranza da un lato consente di chiedere un rigoroso rispetto delle procedure democratiche interne al partito ed ai gruppi parlamentari ma dall’altro implica che la minoranza, che non riesca a convincere la maggioranza, si adegui alle decisioni di quest’ultima. Salvo che sulle materie di coscienza (che peraltro sono di competenza dei singoli individui e non delle correnti). E, naturalmente, salvo che il dissenso non raggiunga un livello tale da rendere impossibile la propria permanenza nel partito. Il che equivale a dire scissione: ciò proprio ciò che Fini ha nettamente escluso di voler fare. L’idea di una minoranza interna ad un partito che ritenga di avere le mani libere e di negoziare di volta in volta il proprio appoggio al Governo è la negazione della stessa concezione della democrazia responsabile e governante.

Tutto bene dunque? Tutto (quasi) bene. Salvo un dettaglio: la posizione istituzionale di Fini. La presidenza delle Camere è una funzione delicata nel concreto svolgimento della dialettica istituzionale. Funzione che deve essere esercitata con grande rigore nel duplice obiettivo di consentire al Governo ed alla sua maggioranza di realizzare il proprio programma di governo ed all’opposizione di ottenere il rispetto delle procedure e la visibilità delle proprie proposte. Per questo motivo, siamo convinti che (come accade ad esempio in Gran Bretagna) sarebbe meglio affidare tali incarichi a personalità politiche autorevoli ma non immediatamente coinvolte nella dialettica politica. Ma la politica italiana sembra aver imboccato un’altra strada: far presiedere le assemblee parlamentari da leader del partito o della coalizione di maggioranza. Sarebbe però molto grave se Fini dovesse ingenerare l’impressione di esercitare questo ruolo non come arbitro ma come leader di una componente interna del PdL con l’obiettivo di massimizzare il risultato politico di tale componente. Sarebbe una distorsione della sua funzione istituzionale ed un suicidio politico.