Ezio Mauro, il laicato cattolico e il rischio di un ritorno della “Statolatria”

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Ezio Mauro, il laicato cattolico e il rischio di un ritorno della “Statolatria”

Ezio Mauro, il laicato cattolico e il rischio di un ritorno della “Statolatria”

16 Febbraio 2007

“È ancora consentito, nell’Italia del 2007, credere in Dio e votare
a sinistra?”. Con questa domanda tutt’altro che banale il direttore di Repubblica
Ezio Mauro introduce il suo editoriale del 7 febbraio. Alcuni lo hanno
interpretato come un editoriale duro, politicamente scorretto, una
fucilata. A leggerlo attentamente, tutto pare tranne che politicamente
scorretto e deflagrante. Certo, un po’ duro; un articolo per essere
deflagrante e politicamente scorretto necessita di altri ingredienti,
soprattutto se viene da Repubblica. L’articolo è indubbiamente ricco di
tesi, sebbene a tratti possa apparire un po’ superficiale nell’analisi.
In particolar modo Mauro intende sostenere tre tesi. La prima riguarda
la pretesa campagna egemonica condotta dalla Conferenza Episcopale
Italiana a guida Ruini. Scrive Mauro: “È un discorso che ha in sé
l’obiettivo grandioso della terza e ultima fase del lungo regno
ruiniano sull’episcopato italiano: la riconquista dell’egemonia, non
più attraverso il partito dei cristiani ma direttamente da parte della
Chiesa, che con la spada di questa egemonia rifonderà la politica,
separando infine il grano dal loglio e costituendo un nuovo
protettorato dei valori nell’esercizio di un potere non più temporale,
ma culturale”. Sembrerebbe che personalità come Mauro tendano a
sottostimare il fatto che in una società libera a tutti dovrebbe essere
consentito di tentare di far contare la propria posizione: laici o
ecclesiastici che siano. Inoltre, la rilevanza pubblica del discorso
religioso, nella prospettiva cattolica, assume i caratteri di un
discorso sull’uomo, un’antropologia; compito di diffondere e promuovere
tale prospettiva spetta soprattutto ai laici. Ebbene, così come
esistono laici cattolici forse meno sensibili al primato dell’etica
sulla politica, in quanto onestamente riconoscono nel momento politico
il luogo nel quale si risolvono e si dissolvono le controversie di
natura etica, esistono altri i quali – pur tra innumerevoli cadute e
grossolane contro testimonianze – tentano di promuovere e di
testimoniare la rilevanza etica della politica, evidenziando i
caratteri antropologici identitari. Come si nota, è una questione molto
seria che il direttore Mauro non dovrebbe liquidare superficialmente
con l’argomento dell’ingerenza ecclesiale, a meno che non voglia far
torto alla sua intelligenza. Ed in effetti, da uomo intelligente qual
è, ad un certo punto svela la motivazione autentica del suo duro
intervento. Ciò che lo preoccupa non è tanto l’attivismo dei vescovi
italiani, quanto il timore che un’eventuale rinnovata consapevolezza
politico-culturale del laicato cattolico possa rappresentare un
ostacolo rispetto alla realizzazione del Partito Democratico.

Gratta
gratta ciò che turba Mauro è esattamente ciò che meno interessa i
vescovi italiani, ossia, il dominio delle ragioni della politica –
ridotta a geografia partitica – sulle questioni di natura etica. È qui
risiede la seconda tesi del nostro direttore: “Ciò che invece mi sembra
sotto attacco è l’organizzazione politica del pensiero cattolico di
sinistra, la sua ‘forma’ culturale, l’esperienza storica che ha avuto
in questo Paese e infine e soprattutto la traduzione concreta di tutto
ciò nella nostra vita di tutti i giorni e nel possibile futuro. Cioè
l’alleanza tra i cattolici progressisti e gli ex comunisti che è al
centro della storia dell’Ulivo, che oggi forma il baricentro riformista
del governo Prodi e che domani dovrebbe essere la ragione sociale del
nuovo partito democratico, risolvendo l’identità incerta della sinistra
italiana”. Tutto il brano appare rivelatore delle intenzioni autentiche
di Mauro, benché le ultime righe sembrerebbero rivelare anche la
profonda crisi in cui versa la sinistra italiana. Quest’ultima
incontrerebbe il movimento “cattolico progressista” (personalmente
rifiuto l’ermeneutica destra-sinistra/conservatore-progressista in
ambito religioso) per “risolvere l’identità incerta della sinistra
italiana”. Se questa non è una pubblica ammissione di vuoto culturale
della sinistra italiana mi dica Mauro di che cosa si tratta! Pubblica
ammissione espressa, per giunta, dal direttore del giornale che da
trent’anni tenta con intelligenza ed efficacia di rappresentare le
istanze e la rilevanza culturale della sinistra riformista.

Credo
abbia ragione Pierluigi Pollini, il quale in un documentato articolo
pubblicato dal sito della Fondazione Magna Carta, commentando
l’editoriale di Mauro, sulla scia della lezione di Augusto Del Noce,
scrive “Su questo si sta avverando la profezia filosofico-politica di
Antonio Gramsci, in relazione al cattolicesimo progressista e in
generale al modernismo. Per lui il vecchio PPI ha il compito di
ravvivare le forze cattoliche e condurle sul terreno della democrazia.
Compiuto questo compito storico i cattolici democratici si suicidano e
consegnano le masse cattoliche ad una dialettica politica non più
influenzata da modelli e rappresentazioni religiose. Per Gramsci tale
dialettica politica della democrazia sarebbe stata determinata
essenzialmente dalla lotta di classe e quindi le masse cattoliche
avrebbero dovuto, seguendo il loro interesse di classe, sottoporsi alla
direzione del partito rivoluzionario marxista”.

A
confrontarsi sono due concezioni di “democrazia cristiana”. La prima
vedeva nel partito della Democrazia Cristiana uno strumento necessario
affinché i cattolici italiani, fuoriusciti malconci dalla questione
romana, fossero traghettati dall’ancien régime

La
terza tesi sostenuta da Mauro riguarda l’esaltazione della pretesa
assolutistica dello “Stato” moderno. Non che Mauro vagheggi la
costituzione di uno “Stato” totalitario, tuttavia sembrerebbe
insensibile alle ragioni teoriche e alle esperienze storiche che hanno
contribuito realmente all’emergere dei totalitarismi nell’epoca
moderna. Con freddezza, e spero inconsapevolezza, Mauro afferma: “La
terza fase comincia quando Ruini avverte che alla Chiesa è consentito,
nei fatti, ciò che nella Repubblica non è permesso alle altre ‘parti’.
Ogni componente della società, ogni identità culturale, nella sua
autonomia e nella sua libertà deve riconoscere un insieme in cui le
parti si ricompongono: lo Stato”. No, caro direttore, in una società
libera lo “Stato” (come lo scrive lei con la “S” maiuscola) è anch’esso
parte di una galassia civile nella quale le singole componenti
delineano un pluralismo irriducibile alla “soluzione hobbesiana”;
quella soluzione in forza della quale la vita sociale sarebbe
irrimediabilmente condannata alla prevaricazione di una parte più forte
sull’altra più debole, sicché dovremmo rassegnarci ad una presenza
invasiva dello “Stato” che tutto regolamenta e disciplina. La nostra
posizione è che la società civile non rappresenta lo strumento di
legittimazione del potere politico, bensì la linea di confine e
l’elemento critico che dall’esterno lo controlla e ne impedisce la
tracimazione, fagocitando il pluralismo delle formazioni sociali,
ossia, quella rete di corpi intermedi i cui membri scelgono di essere
liberi e responsabili; realtà sociali, dunque, che svolgono
l’ineludibile funzione di tenere a debita distanza, entro i propri
argini, il potere politico. In questa prospettiva, la società civile è
data dalle relazioni intercorrenti tra persone, le quali si associano
in migliaia di modi originali e creativi, nella prospettiva di
raggiungere i propri obiettivi sociali. In questo modello lo stato,
lungi dall’essere assente o dallo svolgere una funzione di mero
guardiano, s’inserisce nella complessa articolazione della società
civile con una funzione ausiliare, nel rispetto del principio di
sussidiarietà orizzontale, oltre che verticale.

La società civile nel modello relazionale è simile ad una rete internet, una sorta di galassia civile,
frutto delicato, prezioso e non intenzionale di secoli di
civilizzazione, durante i quali le donne e gli uomini hanno fatto
propri i principi dell’autogoverno. In definitiva, l’editoriale di
Mauro necessiterebbe da parte dell’autore di alcune precisazioni, in
primo luogo, perché mai laici credenti ovvero ecclesiastici, comunque
cattolici praticanti, italiani almeno quanto lo stesso Mauro, non
potrebbero organizzarsi per promuovere la loro prospettiva
antropologica ed avanzare proposte politiche nel rispetto delle regole
democratiche? In secondo luogo, se la sinistra italiana non ha ancora
una propria identità ben definita, non sarebbe ora di fare i conti con
la storia? Infine, che senso ha definirsi liberali e progressisti e poi
affidare allo “Stato” il compito di omogeneizzare le istanze plurali
che provengono dalla società civile, di cui lo stato è anch’esso una
parte e non il “tutto”?