Famiglia e carriera, per le donne (forse) è ancora un tabù
07 Giugno 2011
Un primato senza dubbio l’Abruzzo può vantarlo. E non da poco. Siamo infatti la terza regione in Italia per tasso di femminizzazione delle imprese. Cresce l’economia rosa abruzzese. Al timone di più di un’impresa su quattro c’è una donna. A rilevarlo è un’indagine di Unioncamere, che ha tracciato un quadro sull’imprenditoria femminile: a marzo, rispetto al trimestre precedente, le imprese rosa risultano 41.625. Il che corrisponde ad una crescita dell’1% in un anno.
Una buona notizia? Dipende. In primo luogo proprio perché “fa notizia”, quando invece una situazione del genere dovrebbe rientrare nella ordinarietà delle regole del mercato. In secondo luogo perché se si prova a guardare “dietro la notizia”, si scopre che a simili traguardi le donne giungono spesso più tardi degli uomini, con enormi sacrifici (per non dire rinunce) e con minori soddisfazioni economiche. Senza considerare che, a elezioni amministrative appena concluse, il quadro che ne è uscito fuori, in termini elette, è tutt’altro che rosa.
Sui perché ci si potrebbe interrogare all’infinito. Rincorrersi in analisi che dicono tutto e il contrario di tutto. Ma che segnano un chiaro scollamento tra l’evoluzione naturale della società e le rigidità, soprattutto legislative, contro cui si infrangono le possibilità delle donne.
Fa riflettere la diversa velocità con cui procedono il dibattito sulla situazione femminile nel nostro Paese da un lato e le misure concrete dall’altro. Velocissimo il primo. Lente, per non dire immobili le seconde. Eppure lo sentiamo ripetere, fin quasi a non poterne più – persino noi che siamo le dirette interessate -, che la scarsa partecipazione delle donne, così alla politica come al mercato del lavoro, è un fattore di debolezza del sistema. Così come il fatto che la pari dignità tra uomini e donne nelle posizioni di potere debba essere riequilibrata per legge: è la negazione della meritocrazia.
La risposta silenziosa delle donne arriva, questa sì, dai fatti. Si fanno meno figli, si abbandona il lavoro. Con il risultato, non certo voluto, di impoverire il paese. A rimetterci dunque è soprattutto la famiglia. La maternità è ancora inconciliabile con la realizzazione professionale di una donna, costretta a volte a rinunciare alla carriera o più drammaticamente a mettere al mondo figli.
Un circolo vizioso che ci allontana anni luce dai parametri europei, dagli esempi di Francia, Olanda e Danimarca, dove le opportunità, meglio, le pari opportunità, sono una regola.
Soprattutto, e a dirlo con preoccupazione è una voce autorevole, si “sprecano incredibilmente talenti”. Proprio così. Perché a quanto pare le donne sono più brave dei colleghi maschi: più preparate, più abituate alla fatica, più organizzate e naturalmente predisposte al gioco di squadra. Lo dice senza reticenze, ma anzi, esprimendo apertamente le sue preoccupazioni, il governatore della banca d’Italia, Mario Draghi. Sono le sue ultime considerazioni e forse in qualche modo Draghi si proietta già verso il ruolo di numero uno della Bce e anticipa un tema che l’Italia dovrà affrontare a maggior ragione nel confronto con l’Europa, dove il nostro Paese esce con le ossa rotte.
Eppure la soluzione esiste ed è stata felicemente sperimentata, in Francia, come in Inghilterra. Per non considerare i Paesi del Nord Europa. La soluzione ha un nome: si chiama “conciliazione” e significa permettere alle donne di essere madri e lavoratrici. Mogli e lavoratrici. Figlie e lavoratrici. Ma soprattutto donne e lavoratrici. Tutte le ricerche indicano chiaramente le via da seguire. Semplici e fattibili. L’aumento degli asili nido, la flessibilità degli orari di lavoro e i congedi parentali divisi. Oltre a politiche fiscali che concedano detrazioni a favore delle donne che lavorano. In questo modo la famiglia e i figli lungi dall’essere un ostacolo, possono trasformarsi in uno stimolo alla realizzazione della donna. Perché al benessere sociale non può che seguire il benessere economico. E’ fondamentale permettere alle donne di avere una famiglia senza per questo dover rinunciare ad altro.
Una via semplice e fattibile, si è detto. L’ostacolo, infatti, è altrove. E’ nella mentalità, che fatica ad adeguarsi ai cambiamenti. E’ nella reticenza a investire nel capitale umano e a sopportare costi sociali i cui frutti potranno vedersi solo a lunga scadenza. Ma la trasformazione può iniziare, silenziosa e impercettibile. E non si tratta di alterare equilibri o di stravolgere ruoli. Basterebbe un welfare più attento ai bisogni delle donne e delle famiglie. Una visione meritocratica e lungimirante della società. Un’equa divisione delle responsabilità.
Non nuovi ruoli, dunque. Ma solo la possibilità reinventarli, rimanendo fedeli ad essi. Perché se c’è più occupazione, sarà più facile fare più bambini. E con la crescita demografica, ci sarà anche più crescita economica.