Fare come in Francia
09 Dicembre 2015
Il successo di Marine Le Pen in Francia ha portato alcuni autorevoli esponenti del centrodestra italiano a sostenere una tesi che a una prima lettura appare di assoluto buon senso. Si afferma in sostanza la superiorità del modello nostrano, perché se Oltralpe avessero fatto come da noi – e cioè le due destre avessero stretto già al primo turno un’alleanza contro i socialisti – gran parte delle regioni sarebbero state conquistate.
La diagnosi semplifica un po’ le cose, perché presuppone l’assimilabilità dei due Paesi sotto il profilo storico-politico. Tuttavia il fatto stesso che sia stata formulata e che ricorra nel nostro dibattito pubblico impone una riflessione, su un duplice aspetto: da un lato sullo stato presente del centrodestra italiano, dall’altro sulla più complessiva realtà del nostro sistema politico.
Se infatti in Francia la frattura destra-sinistra ha radici antiche e una profondità tale per la quale può essere scalfita ma non messa in dubbio da dinamiche contingenti (in Francia, per capirci, un governo bipartisan non è uno scandalo – si pensi alla cohabitation -, ma mai porterebbe uno dei contraenti a sbiadire la propria collocazione politica fino a metterla in dubbio!), esiste però anche un’altra frattura non meno profonda: tra destra ed estrema destra.
Negli ultimi decenni – a partire dalla nascita della V Repubblica e in maniera ancor più evidente dal bicentenario della Rivoluzione del 1789 -, mentre il conflitto tra destra e sinistra si è andato affievolendo, la cesura tra destra ed estrema destra si è rafforzata. Anche per questo il sistema politico francese ha acquisito stabilità. Anche per questo la forza delle istituzioni ha spesso ovviato, almeno in parte, a situazioni sociali ed economiche non proprio brillanti. E, se ci spingiamo fino ai giorni nostri, è anche a questo che si deve la decisione dei socialisti di ritirarsi in quelle regioni nelle quali non possono sperare nella vittoria, favorendo indirettamente i loro avversari della destra moderata.
Insomma: sarà pur vero che Marine Le Pen ha provveduto a edulcorare alcuni tratti del movimento ereditato dall’augusto genitore, ed è certamente vero che i tempi che viviamo impongono di mettere al bando censure di tipo salottiero e anatemi. Non per questo, però, sull’antisemitismo, sul rispetto dei principi liberaldemocratici e sulla politica estera si può transigere o praticare sconti se s’intende diventare forza di governo matura e credibile.
Se questa avvertenza vale per quei partiti che si sono ritrovati in piazza a Bologna (Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia), essa dovrebbe dire qualcosa anche a Renzi e al Pd. Giocando una partita personale e spregiudicata, essi hanno impedito che la riforma delle istituzioni divenisse l’occasione per far emergere una legittimità repubblicana condivisa: troppe forzature, al di là del merito delle riforme, dalla fiducia posta sulla legge elettorale in poi.
E poiché in Italia i poli sono già tre, ciò significa che se quello anti-sistema andrà al ballottaggio sarà inevitabilmente favorito e potrà vincere la partita più facilmente che in Francia. Perché, da questa parte delle Alpi, non ci sarà nessuno pronto a un passo indietro pur di favorire l’avversario di sistema. Il che c’induce a concludere che in politica la prepotenza non sempre paga e ci ammonisce a ricordare che, sebbene dai numeri non si possa prescindere, la politica non si riduce mai a una somma algebrica.