Fare un figlio dopo i cinquant’anni non è un successo ma un fallimento

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Fare un figlio dopo i cinquant’anni non è un successo ma un fallimento

18 Dicembre 2010

Le gravidanze delle Superstar televisive, sempre più in età avanzata, fanno discutere: la bandiera la porta Gianna Nannini che ha appena partorito a 54 anni, ma è in buona compagnia; e sui media si prendono questi esempi come spunto per magnificare le sorti delle gravidanze rimandate a tavolino.

Sarebbe bene riflettere, prescindendo dai casi singoli, che devono restare nell’intimo della privacy.

In primo luogo conta il punto di vista scientifico, cioè considerare i rischi di queste scelte: ad esempio sarebbe bene leggere l’American Journal of Perinatology del febbraio 2009 (Advanced maternal age. Part II: long-term consequences) per rendersi conto che le gravidanze in età troppo “adulta” portano rischi di anomalie al bambino, di prematurità, ma anche gravidanze ectopiche ed aborti spontanei.

Ma in secondo luogo sarebbe giusto domandarsi cosa c’è sotto tanto strombazzare le scelte delle VIP da parte dei media, come se fossero esempi da imitare. Perché il ritardare la gravidanza non è una vittoria della singola donna, costretta invece da un meccanismo ossessivo e violento a rimandare l’età del primo parto, per cui tutte si trovano a far il primo figlio tardi, lo vogliano o no. Ritardare la gravidanza è normalmente un’imposizione sociale (e le involontarie testimonials non aiutano a risolverla). Allora perché inneggiare a questo cambiamento epocale in peggio?

Strombazzare la scelta imposta a tante donne di far figli tardi come fosse una libera scelta, fa scordare che un figlio, due figli, sono una cosa naturale per l’ organismo e per la psiche, come l’acqua che beviamo o come il caffè che stamani abbiamo preso a colazione. Che non sono un “diritto”, un “Prodotto”, una “scelta”, un “regalo”, cioè degli oggetti di consumo. Che pensare di “programmare” un figlio sembra una conquista, ma è un passo indietro rispetto ad un mondo che ci vuole alla stregua di utili ingranaggi. Atterriti dal fatto che le donne che fanno figli tra 20 e 25 anni vengono pesantemente stigmatizzate e colpevolizzate (vedi Social Science and Medicine, gennaio 2008), come fossero fenomeni da baraccone.

Dove va a finire questo strombazzare? Probabilmente a far passare il figlio come un oggetto, e talora un oggetto di consumo. Leggiamo su Vanity Fair di Novembre a proposito delle maternità avanzate: “Negli ultimi dieci anni ho imparato a tenerlo a bada, il mio corpo. Mi sono fatta piccola, muscoli e pelle. Penso che una cosa piccola si rovini meno di una grande. Se però mi accorgo che non è così e la mia testa non ci sta, allora abortisco”. Oppure: “Io penso che se una desidera mettere al mondo un bambino è giusto che lo faccia, come se una vuole rifarsi qualcosa: non ci vedo niente di moralmente scorretto”.

E forse un oggetto meno “utile” della macchina o del PC per la società, perché se si fa figli si consumano meno oggetti di alto costo, e la società ha più interesse a far comprare Ferrari di prima qualità che Pampers nei discount.

E che il figlio sia un oggetto fa comodo a chi vuole che la società non si basi sulla solidarietà, ma sul consumo, perfino sul consumo dell’uomo sull’uomo. Si intaccano le basi della solidarietà per far sparire le tracce di duemila anni di cultura compassionevole e creatrice di ospedali e di Misericordie.

Il primo problema insomma non è l’età a cui facciamo il figlio, ma è cosa davvero intendiamo dicendo “mio figlio”: un possesso, un progetto a tavolino che rifiutiamo se non ci viene bene, o un atto gratuito? E’ un problema mentale. E culturale.