Federalismo o dissoluzione: non c’è altra strada per l’Iraq
27 Ottobre 2008
E’ difficile offrire un’immagine unitaria e lineare di quel che succede in Iraq. Il rischio della semplificazione ideologica è sempre in agguato. Molti analisti americani, dopo aver scoperto a proprie spese che l’Iraq è un paese tribale, settario e religioso, ora cadono nell’errore opposto e riducono tutta la vita sociale e politica del Paese a questa chiave di lettura ipersemplificata.
E’ quello che è successo a Peter W. Galbraight in un articolo già citatissimo, “Is This a ‘Victory’?” apparso il 23 ottobre sulla celebre, liberal e correttissima “The New York Review of Books”. L’autore d’altra parte non è un signor nessuno: figlio del celebre economista democratico, diplomatico di carriera, ex ambasciatore statunitense in Croazia, anch’egli fervente democratico, è uno scrittore “informato sui fatti”, colto e preparato, autore di saggi importanti, da “La fine dell’Iraq” al recente “Unintended Consequences: How War in Iraq Strenghtened America’s Enemies”.
Nell’articolo in questione Galbraight sostiene una tesi difficilmente contestabile ma che conduce a conclusioni errate (e condivise dai vertici democratici, tra cui il candidato alla vice-presidenza Joe Biden e il senatore newyorkese Chuck Schumer). E’ innegabile che in Iraq – questo il ragionamento di Galbraight – la surge abbia dato buoni risultati, ma si può dubitare su quanto il calo degli scontri etnici, degli attentati e delle vittime tra i militari e la popolazione, sia esclusivamente attribuibile alla nuova strategia americana. In ogni caso “meno violenza non è sinonimo di successo”.
Fin qui niente da eccepire, il ragionamento ha una sua logica condivisa da molti; la surge ha come fine non la pace in Iraq ma la sconfitta di Al Qaida, la pacificazione di Bagdad, del triangolo sunnita, la fine delle violenze interetniche in modo che il governo e le leadership irachene possano trovare un accordo: una "road map" verso la riconciliazione nazionale, passo fondamentale per il raggiungimento della pace. A questo punto, ecco la previsione azzardata: un Iraq stabile, unitario e democratico non potrà esserci perché l’esportazione della democrazia non sta funzionando e le fratture etniche tra sciti e sunniti, tra curdi e turcomanni, tra sciti e curdi non sono ricomponibili. L’unità nazionale irachena è qualcosa che è andato perso per sempre.
L’unica soluzione percorribile, per Galbraight, sta in una tripartizione dell’Irak in stati autonomi separati secondo linee etnico-religiose. Lo conferma il fatto che ora anche i sunniti si sono dotati di proprie milizie armate per sconfiggere Al Qaida. In secondo luogo – e seconda deduzione fallace – la parte più importante del paese, quella sciita, cadrà inevitabilmente sotto l’influenza dell’Iran, paese che esce rafforzato dall’intervento americano, a spese della Turchia e dell’Arabia Saudita.
A dimostrazione dell’atteggiamento dell’attuale governo di Baghdad ci sono le simpatie e le azioni del presidente del consiglio Nouri al Maliki. “Il suo disegno è trasparente – sostiene Galbraight – i curdi e i sunniti sono un ostacolo a una coalizione di governo che vada verso la creazione di uno Stato islamico e scita. Al Maliki vuole eliminare le milizie sunnite e contenere i curdi politicamente e geograficamente”. Conclusione implicita: la nuova presidenza americana dovrà favorire il riassetto su base etnica e settaria dell’Iraq e ritirarsi al più presto dal Paese.
Tutte le argomentazioni dell’autore hanno una certa, e forte, validità, ma risentono di una semplificazione eccessiva finendo per vedere un elemento solo – le differenze religiose ed etniche– come determinanti e in modo negativo. L’Iraq però è un paese complesso dove le forze in gioco sono molteplici e gli attori recitano ruoli ambigui. E’ vero per esempio che Maliki appartiene ad un partito filo-iraniano che fa la voce grossa contro i “Figli dell’Iraq”, militanti sunniti, ma cosa ne sarebbe del suo esecutivo senza l’esercito americano che appoggia sia il governo che i gruppi di autodifesa?
L’errore principe degli americani dopo la caduta di Saddam non è stato di indire le elezioni nel 2005 ma di pensare che il meccanismo procedurale delle elezioni fosse sinonimo di democrazia in stile Westminster, in un paese in cui decenni di brutale dittatura avevano distrutto la convivenza civile e dove non erano assicurate né la sicurezza né i servizi essenziali. Una terribile sottovalutazione, come le prime misure adottate dal “proconsole” Bremer: l’epurazione del Baath e lo scioglimento dell’esercito iracheno i cui quadri erano a maggioranza sunnita.
A partire da questo vuoto – creato dall’insipienza di Washington, dall’ignoranza della situazione concreta, dai sensi di colpa imperiali degli Usa, dalla paura di essere accusati di neocolonialismo – si è scatenato il caos. La decisione politicamente suicida dei sunniti di rinunciare a partecipare alle dinamiche elettorali non è stata estranea a ciò che abbiamo appena elencato.
In secondo luogo, è vero che il confronto, ma non il conflitto armato, tra sciti e sunniti, tra arabi e curdi e turcomanni può essere assunto come un dato strutturale, ma nel corso dei secoli ha attraversato alti e bassi e ha visto lunghi periodi di pace. Ci si dimentica che spesso una stessa tribù è religiosamente composita e che in molte zone è impossibile separare i singoli gruppi, pena una vera pulizia etnica.
A complicare il puzzle identitario iracheno, si aggiunga che spesso le violenze sono accadute all’interno degli stessi aggregati religiosi, come a Bassora, gli scontri sono stati tra l’esercito e le milizie scite, entrambi appoggiati dall’Iran. Il mondo sunnita è a sua volta scosso da una doppia contrapposizione tra la nuova leadership anti-Al Qaida alternativa al potere tradizione degli sceicchi – da un lato; tra le stesse milizie e il Partito Islamico Iracheno, organizzazione sunnita al governo, dall’altra.
Galbraight non tiene conto del fatto che lo scontro politico non segue immediatamente queste linee di appartenenza: a favore delle elezioni amministrative c’è stata una coalizione di forze che tiene insieme sciti e sunniti, ortodossi e secolarizzati. L’ex diplomatico americano non considera neppure la volontà manifesta della leadership irachena, contraria all’idea di una concordata spartizione soft dell’Iraq e favorevole all’unità nazionale (da articolare certo su modello federale, questo è il motivo del contendere istituzionale con posizioni trasversali gli schieramenti religiosi). Una “spartizione dolce”, in conclusione, funzionerà soltanto in una situazione pacificata – si veda il caso della Slovacchia – dove le divisioni etniche, settarie, religiose e tribali siano nette e chiare. Altrimenti tornerà la pulizia etnica più sanguinosa.
Infine c’è il problema più spinoso: l’Iran. Giudicare automaticamente gli sciti iracheni come filo-iraniani finisce per regalare un alleato agli eredi di Khomeini. Proseguendo in questa direzione non si tiene conto né delle specificità dello sciismo iracheno, né dello stesso nazionalismo di Baghdad, né della storica diffidenza tra arabi e persiani. Se è vero che vi sono stati gruppi di sciti iracheni che hanno combattuto con Tehran, perseguitati e massacrati da Saddam in più riprese, è vero anche che l’Iran gioca su tutti i tavoli geopolitici e deve badare a non solleticare la suscettibilità dei fratelli iracheni: un conto è difendere dei correligionari contro lo straniero americano o contro Al Qaida; un altro assoggettarli ai propri voleri (e valori).
Teheran segue quindi una politica cangiante, tanto che viene da chiedersi se si tratti sempre dello stesso attore – che recita più parti in commedia, o se invece ci si trovi davanti a lacerazioni nel corpo politico iraniano. L’Iran media tra le fazioni sciite rivali in Iraq ma, nello stesso tempo, addestra e arma i rinati “gruppi speciali”, terroristi famigerati che insanguinano il Paese con i loro atti scellerati e sanguinosi, cercando di scatenare l’odio religioso.
La soluzione che, pur tra mille difficoltà, stanno cercando gli americani e le elite irachene più responsabili, è di impedire una guerra per bande che porterebbe il Paese nuovamente nel caos. L’obiettivo è spingere i diversi attori – politici, religiosi, etnici, a una gestione ragionevole e pacifica dei conflitti. In occasione dei colloqui di Helsinki di inizio luglio tra i partiti e gruppi iracheni ancora in lotta tra loro – l’ex ministro sudafricano Mandela Mac Maharaj, che in quell’occasione svolgeva il ruolo di facilitatore assieme a Martin McGuinness (comandante dell’ IRA e ora vice primo ministro dell’ Irlanda del Nord), ha sostenuto: “l’Iraq deve essere incluso in un processo di pace dove al tavolo della conciliazione possano sedere sia le vittime che gli autori delle violenze e che gli uni e gli altri si parlino e si spieghino”.