Fenomenologia del fascio-dipietrismo
13 Settembre 2010
Non ho mai incontrato Marcello Dell’Utri e se qualcuno si offrisse di presentarmelo declinerei cortesemente l’offerta trincerandomi dietro un Domine, non sum dignus! Concordo pienamente, però, con l’articolo di Giampaolo Pansa, Di Pietro è rimasto l’ultimo squadrista, apparso su ‘Libero’ qualche giorno fa. Commentando l’episodio di Como del 30 agosto e la sommossa ‘antifascista’che ha impedito a Dell’Utri di presentare in una sede culturale i manoscritti attribuiti a Mussolini, Pansa ha scritto «E’ inutile sprecare parole sulla gravità di quell’attacco. Un vero schifo, ma prima ancora un gesto sedizioso. In spregio alla Costituzione che tutela la libertà di espressione per tutti, compresi i presunti mafiosi. Tanto più sovversivo se ricordiamo che Dell’Utri è un parlamentare. E dunque un eletto dal popolo». Con parole più sobrie, ma non meno dure, si è espresso Pierluigi Battista sul ‘Corriere della Sera’, a dimostrazione che la pianta liberale, nel nostro paese, non s’è del tutto inaridita. Più grave ancora della protesta dei soliti antagonisti – telecomandati da sindacati e da partiti, nel migliore di casi, guidati solo dal loro odio fanatico e irrazionale, nel peggiore – è, tuttavia, la prontezza con cui un altro ‘eletto dal popolo’, l’onorevole Antonio Di Pietro, ha cavalcato il mob antifascista. Questa la ‘randellata dipietrista’, nella cronaca di Maurizio Giannattasio riportata da Pansa: «Iniziamo a zittire quelli come Marcello Dell’Utri in tutte le piazze d’Italia, perché non è lì che dovrebbero stare, ma in galera…I fischi sono segnali positivi. Se personaggi come Dell’Utri vengono cacciati a suon di fischi dalle piazze, forse il risveglio sociale non è poi così lontano. C’è ancora un’Italia capace di indignarsi».
Se espressioni come questa non sembrano ai costituzionalisti e ai moralisti di professione, che popolano redazioni e aule universitarie, una vera e propria istigazione a delinquere ovvero un’autorizzazione a privare della libertà di espressione quanti, secondo l’Italia ancora «capace di indignarsi», non dovrebbero essere tutelati dalle leggi e dai non negoziabili ‘diritti dell’uomo e del cittadino’, vuol dire che siamo alla frutta e che ha ragione Piero Ostellino quando rileva che da noi i giuristi pensano solo alla «tutela delle proprie baronie accademiche e istituzionali» (ivi comprese le ben retribuite consulenze prestate agli enti locali, le comparsate televisive e le collaborazioni alle testate giornalistiche più ricche).
E nondimeno al di là delle sue astuzie tattiche e delle sue contraddizioni – così bene evidenziate da Antonio Da Rold nell’articolo Estremista e moderato, le mille svolte di Tonino apparso sul ‘Riformista’ del 10 febbraio u.s. – nel demagogismo dell’uomo di Montenero di Bisacce «c’è del metodo» ovvero c’è una political culture che viene da lontano e che, col suo radicale, ontologico, antiliberalismo, rappresenta il punto d’incontro tra l’estremismo nero e quello rosso. E’ la cultura di quanti, per diffidenza atavica nei confronti delle masse gregarie ed eterodirette, hanno sostituito, da quasi due secoli, alla «sovranità del popolo» la «sovranità della piazza» cioè la sovranità di quelle ristrette elite o avanguardie politiche che riescono «a portare la gente in piazza», a riempire gli spazi pubblici di uomini ,donne e bambini frementi di sdegno contro i poteri costituiti e disposti, un tempo, persino a costruire barricate – anche contro Parlamenti liberamente eletti in base al suffragio universale ma ritenuti reazionari e traditori della ‘volontà generale’ (E’ quanto accadde in Francia nel giugno 1848). E’ un copione che, da noi, si ripete dalla ‘marcia su Roma’ all’autunno caldo e che non manca di affascinare i Masanielli stile Di Pietro che il bel paese sforna in qualsiasi stagione.
Oggi, però, c’è una variante sulla quale non si è ancora soffermata l’attenzione degli analisti politici: potrebbe riassumersi nella «sovversione in nome della legalità». Le insurrezioni di piazza del passato erano rivolte contro tutte le autorità statali e tale carattere conferiva ad esse una certa aura nobile e libertaria. Negli anni che stiamo vivendo e nei quali il conflitto (latente o dichiarato) tra le più alte cariche dello Stato e fra i tre classici ‘pouvoirs’ di Montesquieu – esecutivo, legislativo, giudiziario – sta creando climi che ricordano, per certi versi, la Cina dei ‘signori della guerra’, la ‘piazza’non si mobilita più in vista di ambiziosi progetti di palingenesi sociale, com’era, nel 48, la rivendicazione rivoluzionaria del ‘diritto al lavoro’, ma raccoglie scherani e mazzieri che prendono le parti dell’una o dell’altra autorità in conflitto. La piazza resta sempre il referente di legittimità ma ora è asservita ai poteri che occupano i diversi piani del ‘palazzo’. Un’altra patacca, si aggiunge così al nutrito medagliere della nostra storia nazionale: non più il sogno della rivoluzione con l’appoggio dell’Arma dei Carabinieri – come ironizzava il vecchio Montanelli – ma la fantasia malata di far sgomberare Palazzo Chigi con il plauso e il sostegno, se non su commissione, delle toghe.
Intendiamoci, è più che legittimo, in democrazia, che dinanzi a un grave conflitto tra le istituzioni, cittadini e gruppi politici scelgano da che parte stare. Al tempo della Repubblica di Weimar un giurista di sinistra – il teorico dello ‘stato sociale di diritto’ – Hermann Heller lamentava lo scontro non più tanto nascosto che aveva causato lo «spostamento di potere dal legislatore al giudice» e «l’immane crescita del potere politico raggiunto in Germania dalla magistratura con una sentenza della Corte suprema del Reich che «con la decisione del 4 novembre 1925, ha rivendicato con successo il diritto di controllare la conformità materiale di tutte le leggi alla Costituzione del Reich». La «burocrazia giudiziaria» tedesca, alla quale guardava il grande giurista avverso sia a Carl Schmitt che ad Hans Kelsen, era ‘borghese’ e ‘reazionaria’ e, pertanto, il suo accresciuto potere costituiva, ai suoi occhi, un ostacolo al progresso civile e sociale del paese. – v. Hermann Heller, Stato di diritto o dittatura? E altri scritti (1928-1933), a cura di Ulderico Pomarici, Editoriale Scientifica, Napoli 1988.
Nell’Italia di Di Pietro, Rosy Bindi, Bersani & C., invece, ci si lamenta del contrario ovvero dell’oppressione alla quale il Parlamento vorrebbe sottoporre la magistratura sicché se Pellizza da Volpedo dovesse rifare il suo celebre quadro, in testa al corteo porrebbe i nostri valenti magistrati, che, con la loro interpretazione evolutiva del diritto, marciano contro i rappresentanti del popolo, bieche espressioni della ‘tirannia della maggioranza’. Se ne deduce che, per la sinistra radicale, ieri come oggi, la legittimità politica non ha nulla a che vedere con le istituzioni, la loro organizzazione e il loro bilanciamento: decisivi sono i contenuti dell’azione governativa e ,se questi si ispirano a principi di giustizia sostanziale, un Cesare o uno Stalin valgono più di mille parlamenti, come lascia intendere Luciano Canfora nei suoi saggi sulla democrazia antica e moderna.
E tuttavia, ripetiamo, nulla vieta, in una società aperta, di militare sotto le bandiere di chicchessia. Il carattere fascista della scelta di campo sta nei due companatici che accompagnano la pietanza dipietrista, entrambi altamente tossici. Il primo è costituito dalla totale delegittimazione di uno o più poteri in conflitto: se giudici e maggioranze parlamentari disputano su questioni cruciali, che riguardano il presente e il futuro della nazione, la ragione viene collocata tutta in un lato e il torto tutto nell’altro. Il fatto che i rappresentanti del popolo siano stati eletti non conferisce ad essi né autorità formale né prestigio etico-sociale laddove i magistrati, che occupano i loro seggi in base a concorso pubblico, proprio per il fatto di non doverli ai ‘ludi cartacei’,diventano il simbolo dell’imparziale amministrazione della legge – con buona pace sia della democrazia sia del materialismo storico poco disposto a ritenere certi ruoli d’autorità super partes, immuni dai condizionamenti di classe!
Il secondo companatico è ancora più preoccupante. Anche in un paese normale, una crisi gravissima, che coinvolgesse istituzioni e vertici dello Stato, verrebbe considerato una grossa iattura ma, a segnare la natura liberale e democratica del sistema politico, sarebbe, in definitiva, il ricorso al ‘popolo sovrano’: nacque, così, in Francia la Quinta Repubblica, favorita dalla ‘discesa in campo’ del generale De Gaulle (che i Soloni nostrani, Ugo La Malfa in testa, consideravano quasi una reincarnazione francese del duce). L’ispirazione fascista del dipietrismo, invece, sta nel fatto che ad arbitrare tra i poteri in conflitto – tutti, peraltro, in qualche modo legittimi, in virtù o della costituzione formale o della costituzione materiale – non è chiamato il popolo ma, appunto, la piazza, «l’Italia ancora capace di indignarsi». In tal modo, al posto del ‘plebiscito’–che, pur tante volte manipolato, conservava qualche lontana parentela con la democrazia–subentra la minoranza eroica, quella che vorrebbe portare al Presidente Napoletano «l’Italia di Via Veneto», degli Scalfari, dei post-azionisti, dei postcomunisti confindustriali. Se il disegno si realizzasse, sarebbe davvero la morte della democrazia, in tutte le sue declinazioni. Nel 18448, il Principe Luigi Napoleone Bonaparte venne eletto alla presidenza della Seconda Repubblica dai milioni di cittadini che lo avevano preferito al repubblicano generale Cavaignac, al democratico Ledru-Rollin, al liberale Lamartine. Con la ‘sovranità della piazza’ non ci sarebbe neppure bisogno di votare: i sitin e le adunate a Piazza Navona basterebbero per dare una spallata al malgoverno e far prevalere, ai vertici dello Stato, certi uomini e certi istituti piuttosto che certi altri.
Se lo scenario è questo, il velo che i mass-media hanno steso sull’episodio Dell’Utri diventa un campanello d’allarme. In uno ‘stato di diritto’ che si rispetti, l’uomo della strada è indotto a pensare che se dopo i processi che lo hanno visto sul banco degli imputati, l’onorevole siculo-lombardo è a piede libero, vuol dire che ci sono leggi e norme del codice che glielo consentono. Personalmente può essere contrario a quelle leggi e a quelle norme – e quindi sostenere i partiti che vorrebbero cambiarle o abrogarle– ma finché restano in vigore, egli esige che vadano rispettate e, se necessario, con l’intervento risoluto della forza pubblica (per quanto mobilitata a malincuore da questori e da prefetti nominati da altri governi e da altri maggioranze). Non gli è neppure vietato pensare (e scrivere) che un politico chiacchierato come Dell’Utri dovrebbe stare non al Parlamento ma in galera ma tale opinione, d’inconfondibile sapore forcaiolo, non lo spingerà mai a farsi giustizia con le proprie mani (posto che di giustizia si tratti) come se fossimo in un villaggio del selvaggio West, senza giudici e senza sceriffi.
Di Pietro ha fatto della ‘legalità’ la sua insegna e questo, in un primo momento, gli ha attirato simpatie a destra e a sinistra, tra la ‘gente meccanica e di piccolo affare’ e la borghesia onesta e benpensante amante della legge e dell’ordine. In seguito, però, anche per la sua totale estraneità allo spirito dell’Occidente e della ‘civiltà del diritto’, ha sempre più identificato la ‘legalità’ con la ‘giustizia’costruendosi un’immagine mediatica in cui, per così dire, si sono sovrapposti il giudice Antonio Spicacci di ‘Processo alla città’ (1952) di Luigi Zampa, che non arretra dinanzi all’incriminazione di esponenti di rilievo dell’alta borghesia di Napoli e il ‘Robin Hood’ di Alexandre Dumas, che «toglie ai ricchi per dare ai poveri»: una sovrapposizione, va riconosciuto, congeniale alla dimensione mediterranea della cultura italiana (che, per sua fortuna, ne ha anche un’altra decisamente nordica) portata a rimuovere l’antico adagio summum jus, summa iniuria e per nulla rassegnata a un rispetto del diritto che faccia stare peggio chi ad esso si attiene scrupolosamente. Per Di Pietro, una legalità che consentisse a Dell’Utri di tenere una relazione di argomento storiografico in una Biblioteca pubblica di Como non sarebbe neppure concepibile: l’unica legalità che sembra comprendere è quella che si fa strumento di rigenerazione politica e sociale, che vuole mettere ordine nella casa degli Italiani e combattere la corruzione a tutti i livelli. In una legalità che tuteli gli avversari, identificati –con mentalità squadristica–con quanti vogliono il male dell’Italia, avvertirebbe qualcosa di marcio. Per parafrasare un noto e argutissimo motto di Gaetano Salvemini, per lui la legalità è una spada di Damocle che pende sulla testa dei nemici ma si tiene sempre e comunque lontana dalla testa degli amici. Con ogni probabilità, posto che lo abbia letto, l’invito di Piero Calamandrei a diffidare dei magistrati che intendono ‘fare giustizia’ invece di limitarsi ad applicare le leggi ai casi concreti, gli sarà parso un non senso se non la riprova di un’intelligenza in panne.
Sennonché una ‘legalità’ presa sul serio e che non sia una patacca ostentata demagogicamente, non dovrebbe concedersi pause né eccezioni ma portare sul banco degli imputati i compagni partigiani dell’ANPI che, con la piazzata contro il ‘mafioso’ Dell’Utri, si sono arrogati il diritto di stabilire chi deve parlare e chi no, dove, come e quando. Proprio come facevano i portuali di Genova, nell’immediato dopoguerra, quando si rifiutavano di fare sbarcare i profughi istriani, rei di fuggire dal paradiso comunista di Tito; o come facevano i contestatori sessantottini quando chiudevano la bocca ai compagni che, intervenendo nelle assemblee studentesche, andavano ‘fuori tema’o quando interrompevano le lezioni dei professori reazionari che non adottavano i testi di Mao e di Marx. Nella democrazia liberale, sono i codici a ‘permettere’ o a ‘vietare’: non leader gruppi e partiti carismatici, incaricati, per diritto storico, di vigilare sulla fedeltà della classe politica ai Valori sui quali si fonderebbe la costituzione vera, quella materiale. L’Italia, che hanno in mente alcuni, ricorda, almeno per certi versi, la Turchia moderna in cui, al di fuori e al di sopra del governo e del Parlamento, si trova un corpo, l’esercito, cui spetta il compito di preservare con ogni mezzo il carattere laico dello Stato costruito dal grande Kemal Ataturk. Da noi non è mai stato formalizzato nulla di simile ma è innegabile che non pochi politici e intellettuali militanti – ne costituiscono esempi da manuale il vecchio Giorgio Bocca, già partigiano a Cuneo, e il super-retore del ‘republicanism’ Maurizio Viroli (v. lo sconcio pamphlet La democrazia dei servi, pubblicato da chi fu l’editore di Benedetto Croce e di Rosario Romeo!)– si sentano senatori di una sorta di Areopago antifascista, custode e depositario della legittimità repubblicana, pronto a intervenire e a far sentire i loro moniti severi ogni volta che l’«uomo nero», ieri armato di manganello oggi di euro e di dollari, rialza la testa. Che a fondamento della convivenza tra ‘persone civili’ ci siano, innanzitutto, più ancora dei «diritti», le «libertà» dei singoli individui, che valgono per tutti ricchi e poveri, sapienti e ignoranti, bianchi e neri, è un principio che si sta sempre più appannando nei cervelli e nei cuori dei nostri concittadini. Forse Pansa, col suo pessimismo, non ha torto, forse, dietro l’angolo, potrebbe essere in agguato una nuova guerra civile e non ci sarebbe di alcun conforto lo spiritoso aforisma del vecchio Marx che le tragedie della storia si ripresentano una seconda volta soltanto come farse.