Fermare l’Iran è l’imperativo di Bush in Medio Oriente

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Fermare l’Iran è l’imperativo di Bush in Medio Oriente

10 Gennaio 2008

E’ sufficiente dare un’occhiata alle tappe del viaggio iniziato ieri da George W. Bush in Medio Oriente per comprendere lo schema, tutto nuovo, in cui si muove il presidente americano. Dopo Israele, tappe in Kuwait, Bahrein, Dubai e Arabia Saudita, per concludere poi in Egitto (salva una tappa imprevista a Baghdad). Se si segna sulla cartina la rotta dell’Air Force One, si vede subito tracciata la “trincea sunnita” che l’amministrazione americana sta tentando di ergere per contenere l’espansione destabilizzante degli ayatollah iraniani che Bush ha definito, forte e chiaro: “Una minaccia alla pace mondiale”.  Una trincea che, non a caso, confina proprio con quello stretto di Hormuz in cui tre giorni fa le cinque motovedette dei pasdaran iraniani hanno mimato un attacco kamikaze.

Un avvertimento pesante, che si è accompagnato nelle ore successive a una serie di iniziative militari tutte facenti capo alla centrale politica di Teheran (incidenti al largo di Gaza con una motovedetta israeliana, razzi in Galilea, razzi su Sderot, attentato contro un mezzo Unifil in Libano). Una trincea della micro Guerra Fredda che si è ormai consolidata tra Teheran e gli Usa, su cui la dirigenza iraniana (ben oltre gli oltranzismi di Ahmadinejad) pare solidamente attestata in tutte le sue componenti (faccia eccezione una ininfluente micro componente riformista) con intenzioni palesemente aggressive, non solo di potenza regionale, quanto di espansione della rivoluzione islamica.

La contemporaneità delle due motivazioni del viaggio – tentativo di soluzione della questione palestinese e costituzione del fronte anti sciita – non è affatto casuale e anzi rappresenta una sorta di rovesciamento della dottrina con cui la Casa Bianca oggi si rapporta alla crisi mediorientale. Non più la crisi “israelo-palestinese” quale “madre di tutte le crisi”, ma – finalmente – la comprensione che senza un efficace contrasto alla politica di Teheran – vero motore mobile e immobile di destabilizzazione – non è possibile alcuna soluzione del problema palestinese. Già ad Annapolis questa novità strategica  assoluta è apparsa evidente, ed ha anzi segnato l’unico successo del vertice, scarsissimo di risultati quanto a ipotesi di soluzione al contenzioso tra Abu Mazen e Olmert, ma addirittura trionfale quanto ad adesioni ed entusiasmi arabo-sunniti quanto a contenimento degli ayatollah.

Ma quel primo passo deve ora essere consolidato: Bush deve ancora premere perché questa stretta interdipendenza venga accettata sino alle sue più dolorose conseguenze dai paesi arabi, perché i regimi sclerotici del Golfo comprendano che se non abbandonano le pregiudiziali antisemite che bloccano il punto centrale del contenzioso, non sarà possibile neanche costruire un fronte anti iraniano con perno negli Usa. Il vero nodo della trattativa tra Olmert e Abu Mazen, infatti, non sono le colonie (sulle quali si può fare una politica di compensazione territoriale), ma il “diritto al ritorno”. “Diritto al ritorno” che Israele nega innanzitutto perché distruggerebbe il “carattere ebraico” dello Stato di Israele (sancito peraltro dall’Onu bel 1947). Ma anche il pragmatico Abu Mazen si è sinora rifiutato di riconoscere proprio questo “carattere ebraico” dello Stato israeliano; più rigida ancora sul punto è stata sinora la posizione saudita. Solo l’accettazione araba del carattere ebraico di Israele può dunque permettere la nascita di uno Stato palestinese; solo la difesa di questo accordo dai sicuri attacchi destabilizzanti dell’Iran, potrà difendere questo accordo. L’esperienza dell’estate 2006, con l’azione a tenaglia di Hezbollah e di Hamas contro Israele, con evidente regia iraniana, quale risposta al ritiro unilaterale da Gaza deciso da Sharon, è stata definitiva sul punto (e molti regimi arabi, ne hanno preso atto).

Di qui questa strana configurazione del viaggio di questi giorni negli emirati. A questa nuova impostazione, Bush affida dunque le speranze di un esito diverso da quello conseguito da Clinton nel 2000 a camp David con Yasser Arafat e Ehud Barak. E può non avere tutti i torti.