Ferrando e i miti della sinistra che nessuno discute

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Ferrando e i miti della sinistra che nessuno discute

05 Aprile 2008

 Intervistato qualche sera fa in una tribuna politica di RAI 2, il leader del Partito Comunista dei Lavoratori, Marco Ferrando, davanti alle telecamere ha sciorinato, in maniera chiara ed efficace,    tutti i luoghi comuni della ‘Sinistra critica’. E’ un personaggio che sa il fatto suo questo professore di Storia e filosofia del Liceo Issel di Finale Ligure, parla bene, riesce a schivare le domande come un abile torero le corna del toro ma, soprattutto, è abilissimo nel ribaltare le posizioni, passando da accusato ad accusatore. La fine del comunismo? Ma quale comunismo? Forse ché quello sovietico (e oggi quello cinese) poteva dirsi tale? Esaltazione della violenza rivoluzionaria e dei martiri islamici—v. l’intervista, pubblicata sul ‘Corriere della Sera’ il 13 febbraio 2006, ‘Sparare ai nostri soldati? Un diritto degli iracheni’ Ferrando: Nassiriya fu un caso di resistenza armata? Neppure per sogno: un conto è affermare il diritto dei popoli alla resistenza contro gli eserciti imperialisti stranieri che ne invadono il territorio, un conto ben diverso è giustificare lo stragismo dei fondamentalisti islamici. In realtà, il nazionalismo rivoluzionario di Ferrando, generosamente esteso ai tibetani, non è privo di eccezioni dal momento che vi sono etnie che non possono rivendicare il diritto a un proprio ‘focolare’. E’ il caso dello Stato di Israele, non espressione ma che rende . Invitare Ferrando a leggere il recente libro di Fiamma Nirenstein, Israele siamo noi, in cui si documenta puntualmente la presenza di una grande cultura ebraica (teatro, Università, istituzioni culturali), in Palestina ben prima della proclamazione dello Stato ebraico, sarebbe tempo perduto. Come scrive Luca Ricolfi, ne L‘arte del non governo, e fattuali non appena queste possono anche minimamente scalfire le proprie credenze>.

 Non meraviglia che, al riparo dei miti, che elevano una invalicabile barriera verso i fatti, Ferrando abbia potuto definire il sistema sanitario cubano il migliore del mondo contrapponendolo al peggiore, manco a dirlo, quello nordamericano (anche qui sarebbe del tutto inutile mettergli tra le mani i reportage di Maria Giovanna Maglie che confutano i troppi luoghi comuni su questo tema). Né meraviglia che abbia potuto giudicare il mondo postcomunista assai peggiore del mondo che lo ha preceduto. Lo proverebbero l’abbassamento drastico del tenore di vita delle masse, lo scempio dell’ambiente, la distruzione del Welfare State, lo strapotere delle banche, la restaurazione capitalistica, l’indebolimento dei sindacati e dei partiti operai, la fine dello Stato laico. E naturalmente non potevano mancare i lugubri fantasmi della globalizzazione, la colonizzazione americana, le guerre per il petrolio, lo sfruttamento spietato del terzo mondo etc.

  Uno spettacolo di rovine, insomma, sul quale i giornalisti, presenti alla trasmissione, non hanno quasi trovato da ridire. Chi gli ha chiesto le ragioni per le quali il comunismo che avrebbe dovuto contrastare l’irresistibile ascesa della pirateria capitalistica sia così miseramente fallito, non ha battuto ciglio dinanzi alla sconcertante risposta. La Rivoluzione d’ottobre, ha ricordato Ferrando, era nata all’insegna del riscatto e della liberazione dei popoli dalle catene dello sfruttamento capitalistico ma poi ha imboccato una strada suicida: si è andata progressivamente burocratizzando fino al punto da sostituire la nomenklatura alle vecchie classi dominanti , ridando fiato, in tal modo, ai nemici in agguato. Insomma la colpa è stata di Stalin che ha imbalsamato il movimento rivoluzionario e creato un sistema totalitario tra i più mostruosi del secolo breve. Se ne deduce che a  differenza dei fascisti (e dei nazisti) colpevoli di tutte le malefatte di cui si sono resi colpevoli i loro capi, i comunisti non hanno la minima responsabilità (morale e intellettuale) per quanto è accaduto in Russia negli anni tra le due guerre (20 milioni di vittime tra collettivizzazione forzata delle campagne e repressione del dissenso politico) e nella Cina del secondo dopoguerra (80 milioni di morti ammazzati, soprattutto nel corso dell’esaltante ‘rivoluzione culturale!). Così, lungi dall’essere un argomento contro il vangelo comunista secondo Marco (Ferrando), le vittime del totalitarismo rosso–come le lingue di fuoco che, nel discorso di Antonio, nel Giulio Cesare di Shakespeare, si sarebbero dovute levare contro i congiurati delle Idi di Marzo—parlano non a favore dei critici liberali delle ‘democrazie popolari’ ma a favore dell’altra rifondazione….

 Altro boomerang la domanda rivolta all’intellettuale trotzkista se non sentisse qualche disagio per il fatto di non poter indicare nessuno stato al mondo, in qualche modo vicino al—o meno lontano dal—modello di società auspicato dalla nuova sinistra bolscevica. E perché  i  rivoluzionari francesi, è stata la pronta risposta, erano in grado di additare modelli esistenti? Essi guardavano al futuro non al passato che, in quanto rivoluzionari, si proponevano di distruggere. Qualche conoscenza scolastica della storia moderna avrebbe dovuto indurre gli intervistatori a rilevare l’assoluta falsità del giudizio, ricordando che i protagonisti dell’89 erano un arcipelago composito le cui isole maggiori guardavano al sistema politico inglese (foglianti e monarchiens) o alla giovane repubblica nordamericana (i girondini—v. gli scritti di Brissot e di Condorcet sugli Stati Uniti) o al repubblicanism delle antiche poleis (i giacobini rousseauiani) e che solo la componente hebertista e, in seguito, gli ‘eguali’ di Babeuf—nobili antenati di Ferrando—pensavano a una palingenesi sociale. Ma anche qui colpi incassati e non restituiti sicché una modesta figura come Ferrando è apparso quasi come un ‘individuo cosmico-storico’ che addita le vie dell’avvenire senza essere gravato da alcun peso ideologico e senza dover rendere conto di ciò che andato storto (molto storto) in una vicenda tragica che non è stata la sua e che anzi ha visto i suoi tra le principali vittime…

 A questo punto, però, il problema non è più Ferrando ma la cultura italiana, e quella dei media in particolare. Ma è mai possibile che nessuna voce si sia fatta sentire per illustrare le ‘buone ragioni’dell’ultracalunniato compagno Stalin? In realtà, se si abolisce la proprietà privata (e non si dica:solo quella dei ‘mezzi di produzione’ giacché se di questi si dà una definizione troppo estesa, ogni distinzione diventa di lana caprina), se vengono abbattuti i confini tra morale e politica, tra politica e diritto, tra scienza e religione, tra pubblico e privato, tra Stato e società civile e l’intera produzione di beni e di servizi sociali viene affidata ai commissari del popolo’ incaricati di realizzare la giustizia sostanziale e di distribuire, secondo rigidi criteri egualitari, le risorse prodotte dalla nazione, non si vede proprio come il sistema possa funzionare–specie alla luce dei perversi, secolari, abiti della mente sorti nel momento in cui, per citare Rousseau, qualcuno disse .>–in mancanza di un  rigido controllo di tutti i rapporti sociali. Ciò che significa in economia, la nazionalizzazione delle banche, dell’industria, dell’agricoltura, dei trasporti, in politica, la presa diretta su sanità, scuola, sport, spettacoli etc. L’obiezione , per    Ferrando è priva di fondamento: le degenerazioni burocratiche ovvero gli arbitri di quanti hanno ricevuto  dal popolo il potere di governo possono essere evitati se le masse restano sempre vigili  e sospettose e non demandano ad altri il controllo dell’operato dei filosofi-reggitori.

 Se un’assicurazione del genere non sembra far presa sull’opinione pubblica lo si deve solo al ‘realismo’ scettico iscritto del dna dell’italiano medio: non all’orrore naturale che dovrebbe suscitare un rimedio peggiore del male ovvero una burocrazia di partito tallonata dalle masse e continuamente esposta ai mobili voleri, alle insoddisfazioni, alle accuse, alle recriminazioni delle piazze sempre piene. E come potrebbe essere diversamente con una political culture intossicata dai fumi del ’68 e impossibilitata a capire  che lo stile assemblearistico—la democrazia diretta dove la partecipazione alle decisioni collettive non è vincolata ai ristretti ambiti previsti dalla Costituzione e limitata da una visione della politica che ne fa una parte dei rapporti interumani, il resto essendo consegnato a ‘diritti’ che non si mettono ai voti—è assai più totalitario e violento dell’, in cui l’arbitrio dei despoti è parzialmente (molto parzialmente) contenuto dall’osservanza di regole e dalla stanca ripetizione delle prassi, peraltro spesso prevedibili. Se non ricordo male, fu Guido Carli che, intervistato sull’Unione Sovietica, anni dopo la destalinizzazione, rilevò che un’economia collettivistica come quella messa in piedi da Lenin non poteva che essere gestita alla maniera di Stalin, se si voleva garantire alla popolazione civile almeno un minimo dei servizi essenziali.

 L’utilizzazione della critica liberarle o libertaria del totalitarismo in funzione di una progettualità neo-comunista non desta motivo di scandalo solo in Italia e un po’ meno in Francia. Ormai abbiamo un ‘senso comune’ che vede nel ‘mercato, nel ‘capitalismo’, nella proprietà (che non abbia’ funzione sociale’, beninteso) delle cose non meno brutte delle ‘pratiche totalitarie’. Da una parte ci sono(ci sono stati) i Gulag, dall’altra c’è il bieco sfruttamento occidentale dei lavoratori e dei consumatori di casa e di fuori: anzi, i primi non ci sono più—per cui l’anticomunismo è un refrain ingannevole che serve solo a sviare l’attenzione dai ‘veri problemi’—mentre il secondo c’è ancora e si estende a macchia d’olio fino a invadere semicontinenti come  la Russia di Putin e la Cina postmaoista. Per i Ferrando, i comunisti non hanno nulla da rimproverarsi ma quel che è peggio non hanno nulla da rimproverargli quei giornalisti che appaiono sempre disposti a colpevolizzare Francesco Storace per il massacro delle Fosse Ardeatine!

 Ci si chiede, però: questo ‘stile di pensiero’ riguarda solo una sezione esigua dell’orizzonte politico e ideologico italiano? O non rappresenta, piuttosto, l’anima radicale–si direbbe ‘francescana’ se non fosse così indifferente al problema della violenza–di una ‘ecclesia laica’ che nel suo versante istituzionale sa venire a  compromesso col mondo, come le rimprovera Ferrando che non perde occasione per ribadire che ?

 Se si fa mente locale alle analisi degli intellettuali di regime—v. l’articolo di Massimo L. Salvadori, La crisi della democrazia, ‘Repubblica 26 marzo 2008)—ci si imbatte in quadri  talmente apocalittici della ‘deriva occidentale’ da indurci a porre qualche domanda non di poco conto. Alla luce  del e di , perché  la via ‘riformista’ dei Salvadori, dei Ruffolo, dei micromeghisti dovrebbe essere preferita all’aperta e franca rivolta dei Ferrando, dei Centri Sociali, del ‘Manifesto’, di ‘Liberazione’,della ‘Sinistra critica’, che nelle parole di Ken Loach ha e si oppone .

 A dirla tutta, come dinanzi alle critiche mosse dal trotzkista  Ferrando al termidoro sovietico, vien la voglia di prendere le difese di Stalin, così dinanzi alle analisi neo-francofortesi e foucaultiane dei ben retribuiti collaboratori  della grande stampa da sempre legata ai ‘poteri forti’, si è quasi tentati di simpatizzare con Ferrando. In fondo, nonostante la totale cecità ideologica, è uno che e che può vantarsi, come gli émigrés di Coblenza, di non aver nulla dimenticato e nulla perdonato. Gli altri, al contrario, stanno con un piede dentro e un piede fuori dell’Occidente capaci di muoversi nelle sue istituzioni come topi nel formaggio, anche se talora tormentati dalla ‘cattiva coscienza’ del ‘tradimento della causa’. Come certi socialisti del primo centro-sinistra rimasti nell’intimo ‘socialcomunisti’ ma rassegnati a collaborare con la DC per sopravvenuto ‘realismo’.