Fertility night

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Fertility night

24 Settembre 2016

Lo abbiamo già scritto: il coro di reazioni rabbiose che si è scatenato nei media e nel mondo politico sulla campagna per il cosiddetto Fertility Day non si può spiegare solo con gli evidenti difetti della campagna (non è certo la prima né l’ultima “pubblicità progresso” salutista mal realizzata). E’, invece, il segno che quando si accenna appena ad aprire una discussione su questo tema in Italia si tocca un nervo particolarmente dolente per la cultura politica dominante: quell’ideologia radicale e soggettivista dei diritti che negli ultimi decenni ha colonizzato largamente le vecchie “famiglie” politiche.

Se infatti si ammettesse davvero la centralità politica della denatalizzazione si dovrebbe conseguentemente ammettere anche che quella cultura ha contribuito in misura determinante a produrla, e che invece per scongiurarla occorrerebbero radicali mutamenti di princìpi e costumi. Ieri il ministro Lorenzin ha fatto una totale marcia indietro davanti alla Gruber e alla Berlinguer, vestali di quell’ortodossia ideologica di cui parliamo: la ministra appariva come una scolaretta all’esame, compiacente e pronta a giustificarsi. Ha ottenuto la benevolenza delle due signore, ha dimostrato forse al suo premier che non c’è bisogno di sostituirla, ma ha perso l’occasione di difendere una impostazione seria del problema del crollo delle nascite, perdendo anche la propria credibilità. 

Se si guarda ai crudi fatti, senza paraocchi ideologici, emerge con chiarezza come l'”inverno demografico” che oggi infuria in quasi tutto l’Occidente – e in Italia con particolare virulenza – non sia uno tra i problemi, ma il problema fondamentale delle società industrializzate: se non si risolve quello tutte le altre discussioni sullo sviluppo, la crescita, l’industria, la ricerca, la tecnologia, l’istruzione, sono vane. I fatti sono ben noti, accessibili a chiunque: in tutta Europa ormai da tempo si è ben lontani dal tasso di riproduzione di almeno due figli per donna, indispensabile per scongiurare il calo della popolazione; si partorisce il primo figlio (che spesso per questo rimane unico) troppo tardi; e, corrispondentemente, diminuisce sempre più la precentuale delle donne in età fertile, tendenza che una volta iniziata è sempre più difficile invertire. In questo trend, l’Italia è tra i paesi più colpiti, con un tasso di fertilità attualmente fermo ad un misero 1,4 per donna. 

Le conseguenze di questa deriva sono altrettanto note: società in cui vivono sempre più anziani e sempre meno giovani, sempre più pensionati e sempre meno lavoratori attivi o studenti. E dunque sistemi previdenziali e sanitari sempre più onerosi, calo cronico dei consumi, tendenza strutturale alla recessione economica, insostenibilità dell’istruzione e della ricerca, sempre meno innovazione, idee nuove e coraggio di attuarle. Insomma, società che stanno letteralmente collassando su se stesse. I dati in questo senso sono talmente univoci che anche i più tetragoni sostenitori di un modello libertario di società non possono negarli, e se li si incalza ammettono che sì, “il problema esiste”, e magari è anche grave. Ma immediatamente la loro ideologia trova due scappatoie: 1) la diminuzione delle nascite verrà colmata dall’arrivo degli immigrati extraeuropei; 2) essa è causata dalla crisi economica, dalla mancanza di welfare, dall’eccessiva pressione fiscale, e simili.

Si tratta di due argomentazioni assolutamente pretestuose, che è fin troppo facile smontare. 

1) Le statistiche ci dicono che nonostante il massiccio e crescente arrivo di immigrati il tasso di fertilità nei paesi europei non è mai tornato a crescere, ma rimane stabilmente negativo, o continua addirittura a diminuire: gli immigrati giunti da altri continenti appena arrivati in Europa (o al massimo nel giro di una generazione) si adeguano, insomma, sostanzialmente agli standard riproduttivi dei paesi ospitanti. Peraltro, se anche fosse vero che i nuovi arrivati sostituiscono gli autoctoni non nati (e non è vero), dichiarare risolto così il problema sarebbe segno di irresponsabile superficialità. La pura sostituzione numerica, infatti, non garantirebbe affatto la continuità culturale, civile ed economica della società. Per essa sarebbe necessaria una autentica integrazione dei nuovi venuti, cioè una loro piena assimilazione alla cultura dei paesi ospitanti; la quale, evidentemente, richiede molto tempo e una società autoctona molto vitale, forte e cosciente delle proprie radici, che è proprio quello che manca nella gran parte dei casi agli europei di oggi. 

2) Se il calo demografico dipendesse da condizioni economiche e welfare, non si spiegherebbe come mai in Europa esso è praticamente uniforme sia nei paesi più opulenti che in quelli più poveri, sia in quelli più generosi di misure assistenziali sia in quelli che ne sono privi; e, in particolare, come mai il tasso di fertilità più basso (1,3) sia stabilmente appannaggio della Germania, nazione più ricca e tra le più impegnate in politiche familiari in tutto il continente. 

Fermo restando, insomma, che una certa quota di immigrazione, se fosse culturalmente assimilabile, e politiche fiscali e di welfare incoraggianti potrebbero dare un contributo a ridurre i danni, è chiaro che la causa fondamentale del collasso demografico è di ordine culturale. Più in particolare, essa risiede proprio nell’imporsi incontrastato in Europa e in Occidente (ora anche gli Stati Uniti danno chiari segni di andare nella stessa direzione) di quell’ideologia soggettivista libertaria che domina oggi le élites economiche e intellettuali e i media, e si radica sempre più in tutti gli strati delle nostre società. Le statistiche indicano in maniera inequivocabile che lo spartiacque, il momento a partire dal quale l’equilibrio demografico e generazionale nel mondo euro-occidentale ha cominciato ad alterarsi verso la denatalità sono gli anni Sessanta e Settanta del Novecento: la ribellione dei baby boomers nati dopo la guerra, e la rivoluzione dei costumi da essi prodotta. 

I fattori che hanno prodotto la “glaciazione” demografica sono infatti tre, strettamente interconnessi tra loro e a quella rivoluzione: divorzio, contraccezione, aborto. Alla diffusione dei quali va direttamente riportata una serie di conseguenze: la distruzione del modello tradizionale di famiglia; la scissione tra sessualità e maternità/paternità, che era stata sempre un dato acquisito per molti secoli; la conseguente concezione delle relazioni sessuali come un’attività “ricreativa”, con la crescita esponenziale di legami fragili, instabili e promiscui, in luogo delle famiglie stabili; infine, la subordinazione di paternità e maternità a obiettivi individuali come la carriera o lo svago, e la visione dei figli essenzialmente come ostacolo alla conduzione di una vita libera. 

Una conseguenzialità particolarmente trasparente proprio nel caso dell’Italia, avviata più tardi ma con più brusco impatto su quella strada; paese dove il tasso di fertilità ha cominciato a declinare improvvisamente proprio all’inizio degli anni Settanta in coincidenza con il crollo del vecchio modello familiare, e da allora si è attestato saldamente sotto il livello di sostituzione dei morti con i nuovi nati. Da quei traumatici mutamenti è derivata una società strutturalmente sempre più sterile e privo di proiezione verso il futuro: come attestato dal fatto che, parallelamente alla disgregazione familiare e alla diffusione di costumi radicalmente edonistici, si sono affacciate nella nostra società, a somiglianza delle altre continentali, campagne per la legalizzazione dell’eutanasia. Non a caso sostenute con forza dai più convinti alfieri del radicalismo. 

Insomma, che piaccia o no, c’è poco da fare: la società italiana e quelle euro-occidentali potrebbero invertire la curva del suicidio demografico soltanto se in esse tornasse a prevalere una cltura che ponesse come princìpi la stabilità familiare e il naturale legame tra sessualità e generazione. Da questo punto di vista campagne educative, asili nido, incentivi fiscali possono fare ben poco. Dovrebbero cambiare gli ideali, le speranze, gli status sociali condivisi. Una rivoluzione che appare ad oggi molto poco probabile, soprattutto visto il poco tempo a disposizione. Ma è proprio la consapevolezza di ciò, oscuramente condivisa anche da chi  è culturalmente e psicologicamente incapace di prendere le distanze dalla dittatura del soggettivismo libertario, a produrre reazioni così violente e intolleranti, o di totale rimozione, ogni volta che qualcuno richiama l’attenzione, in qualsiasi modo, sulla deriva di auto-estinzione in atto nel nostro paese come nell’intero Occidente (ancora per quanto?) opulento.