Festeggiamo la Repubblica per salvarla dal “moloch” della spesa pubblica

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Festeggiamo la Repubblica per salvarla dal “moloch” della spesa pubblica

Festeggiamo la Repubblica per salvarla dal “moloch” della spesa pubblica

02 Giugno 2010

Gli storici e soprattutto gli storici delle istituzioni e delle dottrine politiche non sembrano rassegnati dinanzi al fatto che non sono soltanto le risorse legate al potere di governo e quelle economiche a condizionare i comportamenti umani ma, altresì, quelle ‘simboliche’, culturali in senso lato. Le prime assicurano l’ordine (e “la legge”), le seconde la sopravvivenza (il benessere), le terze l’identità etico-sociale. Non basta che qualcuno ci ripari dalle sopraffazioni dei nostri simili, togliendo a tutti le armi e consegnandole al ‘Leviatano’ (allo Stato che, nell’età moderna, si definisce come il legittimo monopolista degli strumenti di violenza), né che qualcun altro ci consenta di guadagnarci il pane quotidiano: occorrono anche i produttori di immagini, di ideologie, di credenze che diano senso al nostro passaggio sulla terra. E’ la sapienza del detto evangelico. “Non di solo pane vive l’uomo” eccetera eccetera.

La nostra abitudine a vivere in un mondo (relativamente) ordinato, la sicurezza di un minimo di proprietà che ci liberi dal bisogno, la nostra riserva di ‘costumi’ e di valori morali derivati dalle vecchie religioni (anche quando se ne sono emancipati) costituiscono un imprescindibile ‘habitat’, quasi una seconda natura. Imprescindibile ma non immutabile, beninteso, giacché col tempo, allo Stato si chiede non solo l’imposizione a  tutti di una stessa legge ma che la legge sia giusta e corrisponda all’evoluzione della coscienza civica, al senso sempre più forte della dignità individuale, alla complessa costellazione dei ‘nuovi diritti’; alla divisione del lavoro che produce la ricchezza collettiva si accompagna un più alto sentimento di giustizia che esige una più equa ripartizione degli oneri e dei compensi per le diverse categorie; alla classe dei dotti – gli “intellettuali” religiosi o laici, preti e philosophes – si sottrae, progressivamente, il monopolio della definizione e della distribuzione dei ‘valori’, spalancando le porte alla frammentazione dei codici etici e del pluralismo.

I “progressi”, tuttavia, non avvengono né contemporaneamente, né in maniera indolore. Le rivoluzioni politiche più radicali non dichiarano guerra alla ‘proprietà’, le rivoluzioni’socialiste’, che mettono a soqquadro antichi assetti produttivi, si trovano, sì, costrette ad abbattere i potentati – dinastie, militari, borghesie – che li sostengono, ma in compenso frenano ben presto qualsiasi velleità di far seguire agli sconvolgimenti politici ed economici analoghe devastazioni in campo morale. Lo capì assai bene Alexis de Tocqueville che, posto davanti allo spettacolo delle trasformazioni incessanti della vita e del sistema politico americano, giunse alla conclusione: “dubito che l’uomo possa mai sopportare contemporaneamente una completa indipendenza religiosa ed una totale libertà politica; e sono portato a pensare che, se non ha fede, bisogna che serva, e, se è libero, che creda”.

Negli Stati Uniti il ‘conformismo’ in fatto di costumi (garantito dal ruolo della donna in seno alla famiglia) e la ‘religione civile’ inalterata e indifferente alle critiche della ‘ragion laica’, erano il solido terreno su cui si svolgeva la ‘distruzione creativa’ del capitalismo nascente: tutto cambiava sul palcoscenico del conflitto sociale giacché dietro le quinte dell’etica pubblica tutto rimaneva immobile. Persino la rivoluzione bolscevica, pur esaltata dalle avanguardie e preparata dal futurismo, dopo aver distrutto il potere politico zarista e aver fermato quasi definitivamente la lunga marcia della borghesia russa verso la democrazia liberale, impose una etica puritana e vittoriana che non poteva non avere un effetto di rassicurazione su operai, piccoli borghesi, mugik scandalizzati dalla ‘dolce vita’ degli oligarchi del tempo (era lo stesso “moralismo” che tanto colpiva nella base sociale del vecchio PCI e che spiega come, ai nostri giorni, lo spirito libertario immesso nel partito proletario, lungi dal   rafforzarlo, abbia contribuito alla sua dissoluzione…).

Questa lunga premessa era necessaria per dissolvere  un equivoco che ancora oggi grava sulla storiografia italiana allorché ricostruisce, con attitudine ‘revisionistica’, le vicende risorgimentali. Come poteva incutere tanta ‘paura’ alle classi agiate, si chiedono gli studiosi anche di parte ‘moderata’, un Giuseppe Mazzini sempre rispettoso delle libertà individuali – anche lui come l’odiato Benjamin Constant distingueva, in qualche modo, la libertà degli antichi dalla libertà dei moderni – per nulla nemico della proprietà privata e tutt’altro che irrispettoso della religione tradizionale degli Italiani, come si vide nella breve attività di governo svolta nella Repubblica Romana del 1849? Chi si pone queste domande ignora la dimensione simbolica della politica – su cui Giorgio Fedel ha scritto pagine illuminanti – ovvero non si rende conto che l’agitatore genovese era portatore di una vera e propria ‘rivoluzione culturale’ che, in un’epoca di grande incertezza, come quella seguita alle conquiste napoleoniche e alla effimera restaurazione delle vecchie legittimità, rappresentava un pericolo non meno temibile del dominio straniero e delle minacce, che i partiti estremi, indirizzavano ai ‘beati possidentes’.

Per chi considerava la religione come il fondamento dell’ordine sociale – e non solo la ‘destra’ giacché nel novero non vanno dimenticati i riformatori sociali, cattolici e protestanti, che, in linea con lo spirito del tempo, avrebbero voluto far assumere alle chiese l’iniziativa politica per una società più giusta e più equa –, l’uomo che parlava della ‘Terza Roma’ e ne delineava in toni profetici e palingenetici il profilo morale e ideale, era condannato alla diffidenza dei ceti sociali che allora decidevano il destino dei regimi politici. “Non conosco, storicamente parlando – aveva scritto nei Pensieri sulla democrazia in Europa (1846-7) – una sola grande conquista dello spirito umano, o un solo importante passo verso il perfezionamento della società umana, che non abbia avuto le sue radici in una forte credenza religiosa; e dico che ogni dottrina che non considera questa aspirazione, che non ha in sé una soluzione, adeguata ai tempi, di questa suprema necessità di una fede, di questo eterno problema dell’origine e del destino dell’umanità, è, e sarà, sempre incapace di realizzare questa concezione di un nuovo mondo. Può riuscire a organizzare forme magnifiche; ma la scintilla di vita, che Prometeo colse dal cielo, per la sua statua, sarà sempre assente in esse”.  La Repubblica non era una semplice forma di Stato ma il preannuncio di un’era benefica, di una Rivoluzione così radicale, sul piano ‘culturale’ e ‘interiore’, che in quella dell’89 non vedeva il preludio del ‘mondo nuovo’ ma la fine del ‘vecchio’(secondo, un topos sansimoniano rivissuto con ben altra intensità spirituale).

Nello scritto Sulla Rivoluzione francese del 1789. Pensieri (1871), rilevava che “La Rivoluzione non poteva, checché osasse, far l’impossibile. La Rivoluzione scendeva direttamente dal Cristianesimo: l’ispirazione che ne dominava gli atti non varcava il principio Cristiano; essa veniva per applicare ai fatti terrestri, alla vita politica, le idee fondamentali che il Cristianesimo aveva additato al mondo come appartenenti all’ordine spirituale e da non doversi verificare per l’uomo fuorché nel cielo. Il Cristianesimo è la Religione dell’individuo: la vita collettiva e progressiva dell’Umanità e delle Nazioni in essa è ignota a’ suoi dogmi e alle sue dottrine morali. Il Cristianesimo diede consecrazione ai due aspetti, interno ed esterno, dell’individualità ignorò l’associazione ch’oggi sappiamo essere metodo unico del Progresso. Gli uomini furono per essi fratelli, perché figli d’un solo Dio: ma il fine fu assegnato a ciascuno, non all’insieme; e a ciascuno fu additato il metodo per raggiungere il fine senza che s’insegnasse per questo la necessità dell’unione delle facoltà e delle forze di tutti. Salvarsi malgrado il mondo, non attraverso il mondo e lavorando con Cristo: fu la formula del Cristianesimo”. Erano preannunci di una profonda ‘riforma morale e intellettuale’ degli Italiani che allarmavano l’opinione pubblica liberale non meno delle masse che riempivano le chiese e che, per molti decenni, furono nell’immaginario collettivo moderato il fantasma che minacciava quanto costumi e abitudini secolari avevano depositato nei cuori. (Vedi le pagine illuminanti scritte da Giovanni Belardelli nel suo recente Mazzini, Ed. Il Mulino).

E’ vero che accanto al ‘republicanism’ di Mazzini v’era quello, assai diverso, di Carlo Cattaneo e di Giuseppe Ferrari ma, con buona pace dei retori del federalismo, esso aveva radici quasi soltanto lombarde. Come ha fatto osservare uno storico tanto serio quanto lontano dai mass media, Antonino De Francesco, “Né miglior sorte, per la verità, ebbe la soluzione federale accennata nei suoi scritti da Carlo Cattaneo: di Mazzini egli contestava l’equiparazione dell’indipendenza a una meta rivoluzionaria e per questo motivo, all’indomani del 1848, preoccupato dell’egemonismo sabaudo, ritenne che fosse possibile allontanare l’evenienza di un’Italia unita sotto l’illiberale Piemonte per il tramite di un’alternativa repubblicana e federalista. E tuttavia, le sue idee al riguardo troppo insistevano sulla libertà del cittadino e sull’autonomia dei municipi quale cellula di un ordine a tutela della libertà individuale, perché – prive come erano di un saldo ancoraggio ad un contesto sociale nazionale – potessero prendere la forma di un compiuto progetto politico.  In ragione di ciò, le critiche a Mazzini valsero solo ad incrinare l’unità repubblicana”.

Insomma, di una ‘tradizione repubblicana’ che non fosse vagheggiamento di umanisti e di  nostalgici dell’antico ma un idem sentire radicato nelle diverse popolazioni della penisola, lo storico non prevenuto non vede tracce. Sicché pare del tutto fantasioso quanto scrive un tipico ‘intellettuale del Sud’ come Franco Crispini: “La cultura politica repubblicana resiste ad ogni usura del tempo e delle intricate vicende civili italiane, francesi o di altro paese: il seicento della rivoluzione napoletana del 1647, il settecento delle ‘repubbliche giacobine’ e della repubblica partenopea, l’ottocento delle repubbliche romana e veneziana del 1848-49. Sono esperienze storiche che non hanno mancato trovare significative elaborazioni teoriche attraverso i Mattia Doria, Melchiorre Gioia, Cuoco, Cattaneo, Mazzini. La faticosa costruzione di una cittadinanza italiana, di una identità nazionale ne è stata profondamente marcata; la tradizione repubblicana e radical democratica, tra le altre (del cattolicesimo, del nazionalismo etc), ha in modo specifico, peculiarmente, posto un rilevante nesso, a momenti caratterizzante tutta la ideologia repubblicana tra dimensione di patriottismo, principi di libertà ed eguaglianza, con in più il richiamo alla memoria delle virtù repubblicane per ‘eccitare all’imitazione’, e perché ‘non eternare la memoria della tirannia per farcela odiare eternamente?’. Il patriottismo repubblicano rifiuta inoltre ogni idea di ‘primato nazionale’ che come è noto è idea cara al Gioberti. La riflessione sugli elementi fondanti una cultura ed una coscienza repubblica prosegue nel tempo fino ai Rosselli, ai Gobetti  e si intreccia con un esame critico della storia d’Italia. La ricerca della identità nazionale è  venuta sviluppandosi con ed attraverso di essa”. Ma quando mai, viene da commentare, l’ideale repubblicano trovò significative risonanze negli animi delle classi sociali che costituivano lo scheletro della società civile ottocentesca.

E’ vero, però, che neppure quello monarchico poteva dirsi pianta di profonde radici. La monarchia ingenera affetti, deferenza e devozione quando è legata a un passato glorioso, quando per secoli ha adunato sparse genti ed etnie diverse in una comunità politica omogenea, all’insegna della legge e dell’ordine, capace di produrre una grande cultura letteraria, artistica, ‘filosofica’ in senso lato. E’ lo splendore delle capitali degli Asburgo, dei Borbone, degli Hohenzollern, dei Tudor il ‘momento visivo’ che eleva le varie dinastie regnanti in Europa quasi a ‘divinità in terra’ e induce disposizioni all’obbedienza e al sacrificio (per la ‘patria’). I Savoia, nonostante le loro oggettive  benemerenze – che ormai pochissimi studiosi sembrano disposti a riconoscere, dimentichi, tra l’altro, che il regno di Sardegna rimase, nella controrivoluzione seguita al ’48, l’unico stato costituzionale della penisola –, vennero accettati in base ai freddi calcoli della ragione. Il Piemonte non era  il cuore della nazione storica ed essi non risiedevano in una capitale che, come Roma o Napoli o Firenze o Venezia avesse animato una grande cultura e, pertanto, fosse meta obbligata del ‘gran tour’. Quello sabaudo era uno stato periferico, in cui non erano mancati contributi alle scienze, alle arti, alla letteratura (specie in età illuministica) ma certo si era trattato di ‘riprese’ e di ‘variazioni su temi’ dettati da altri.

Come rilevò Garibaldi, nel più settario dei suoi romanzi, Manlio, “Alla dinastia sabauda, senza dimettermi dei miei convincimenti repubblicani, l’Italia deve due fatti. Il primo è   l’organizzazione d’un esercito che, ben guidato, varrà sempre qualunque altro esercito a parità di numero. Il secondo che, identificando l’unità nazionale coll’ambizione dinastica, l’indipendenza patria ha potuto attuarsi più presto e più facilmente”. Nel 1861 il Regno fu accettato come il ‘minor male’, come l’istituzione che meno avrebbe diviso gli Italiani anche se, nei decenni successivi, i migliori spiriti della democrazia radicale non avrebbero mancato di riconoscerne i meriti. “I tempi volgono propizi alla democrazia,  che si tiene in grembo gli eventi della Nazione – scriverà ad esempio Agostino Bertani nel 1878 –; ma, per disgrazia di cervelli e di passioni di taluni uomini, anziché ordinarsi e consistere, si scompiglia, poiché ne allontanano e compromettono l’elevatissimo obbietto. La monarchia, più accorta e vigilante, bada ai casi suoi, conosce la poca profondità delle proprie radici, le tradizioni limitate, gli elementi contrari, e con le nari al vento fiuta i tempi, li comprende, né più li sfida, ma li seconda; la sua condotta è corretta, incensurabile oggidì”.

E’ forse superfluo ricordare che i ‘tradimenti’ di Vittorio Emanuele III – nel 1915 (entrata in guerra senza voto del Parlamento), nel 1922 (rifiuto di proclamare lo stato d’assedio per scongiurare la marcia su Roma), nel 1938 (leggi razziali), nel 1940 (alleanza col peggiore totalitarismo del secolo breve) – vanificarono il senso di gratitudine nei confronti della dinastia che aveva unificato l’Italia. Ma ciò non ha nulla a che vedere con la mitologia repubblicana, traboccante di retorica logora e stantia, che dettava nel 2006 a Enzo Santarelli riflessioni come questa: “ ‘Dare il voto per la repubblica o la monarchia – aveva detto Rodolfo Morandi a Milano il 18 maggio del ’46 – vuol dire, con buona sopportazione di De Gasperi e dei nostri amici liberali, optare per la democrazia o per il fascismo – né più né meno che questo’. Ma il contrasto che si era aperto nel paese e veniva infine al suo nodo conclusivo, era appunto sull’idea e l’interpretazione del fascismo, e sul programma  dell’antifascismo. |…| Due diverse ipoteche si avanzavano |…| colla repubblica, una di sinistra e una moderata, ma la seconda appariva, se non altro a medio termine, chiaramente vittoriosa e socialmente preminente. Per contro, la caduta della monarchia comportava il venir meno di quel costante condizionamento antidemocratico al vertice e alla base delle istituzioni statuali, che aveva agito e fatto storia almeno dal 1848, imprimendo la sua orma ad ogni passo importante nella politica interna come nella politica estera del paese, e che sarebbe sbagliato non valutare – almeno su un lungo periodo e nei suoi costanti riflessi sociali”.

Gli Italiani, nel referendum istituzionale, si pronunciarono in massa per la monarchia (quasi la metà degli elettori) e gran parte di coloro che fecero una diversa scelta espressero un voto ‘contra’, non un voto ‘pro’. La Repubblica era ancora meno sentita delle monarchia e se tanti spiriti eletti – da Einaudi a Croce, a Pannunzio etc. – non la votarono avevano certo le loro ‘buone ragioni’. E nondimeno oggi, con tutti i suoi acciacchi e con la sua galleria di presidenti non tutti all’altezza del loro compito – chi potrebbe rimpiangere Oscar L. Scalfaro o Carlo A. Ciampi? – la Repubblica oggi è la casa comune degli Italiani, l’unico riparo che resti dalle sfide tempestose del presente. Non sono le ciance del ‘repubblicanesimo’, però, il cemento armato in grado di temerla in piedi. Quando si legge che “il repubblicanesimo, in  maniera specifica, definisce e prescrive l’integrazione civica come l’essenza stessa della società politica” e che “la vita activa dei cittadini, ovvero la partecipazione alle vicende politico-istituzionali della città o della comunità politica d’appartenenza, costituisce (quando addirittura  non esaurisce) la loro stessa identità. Cittadinanza attiva, virtù civiche, processi deliberativi in vista del raggiungimento di un bene comune sono i concetti attraverso cui il  repubblicanesimo segnala e persegue l’integrazione politica, che culmina nella formula per noi imbarazzante dell’‘amore per la patria’ ”, con tutto il rispetto per uno studioso degno di stima come Gian Enrico Rusconi, si ha la sensazione sconfortante di affondare nella inconcludente chiacchiera ideologica.

Almeno per un liberale, i problemi sono altri e si compendiano in quello terra terra della dilatazione della sfera pubblica denunciata recentemente da Piero Ostellino. Tale “dilatazione – che ormai assorbe il cinquanta per cento della ricchezza prodotta – provoca due distorsioni. Prima: una spesa – cresciuta di 90 miliardi negli ultimi cinque anni – nelle pieghe della quale si annidano sprechi, distrazione di risorse a uso clientelare, corruzione, assistenzialismo, distribuzione a geometria variabile della ricchezza agli interessi corporativi più forti con pregiudizio del principio di equità. Il Paese si impoverisce progressivamente. Seconda: una contrazione dei margini di autonomia della Società civile e delle libertà individuali, che aumenta i costi delle transazioni private, mortifica lo spirito imprenditoriale, penalizza meritocrazia e ricerca. Il Paese ne è progressivamente sfiancato”. La sopravvivenza della Repubblica ormai si gioca su questo terreno e non è affatto garantito che il destino cinico e baro non le riservi la sorte toccata alla monarchia condannando due persone fisicamente così somiglianti, come Umberto II e Giorgio Napolitano – tra l’altro due autentici galantuomini – a registrare il decesso di una ‘forma di Stato’ rivelatasi impari alla propria missione storica.