Fiat Spa decolla in borsa e tramonta il mito della “concertazione”
04 Gennaio 2011
Il decollo di Fiat spa, la società delle auto in borsa, con un aumento iniziale del 4 per cento rispetto al valore di partenza indica un possibile percorso in ascesa della nuova società che nasce dalla scissione del gruppo Fiat nelle due componenti, quella storica dell’automobile ora rilanciata anche finanziariamente e quella industriale (che racchiude i camion, le macchine agricole e per il movimento di terra e altri prodotti industriali), finalmente libera di darsi un percorso autonomo.
Mentre si apre questa prospettiva positiva, su cui la borsa italiana, almeno per ora, sta scommettendo, rimangono incognite, dovute al fatto che la nuova era comporta la rottura del legame fra politica ed economia, su cui la sinistra ex comunista ha puntato, dal 1992-93 in poi, per inaugurare la seconda repubblica. Che è nata dal patto di concertazione siglato nel 1993 fra CGIL-Confindustria e governo, di cui l’ex PCI e la Fiat erano stati i promotori. Un patto innaturale, che è durato sino ad ora, a causa di altre circostanze concomitanti, che lo hanno favorito, ma che si è spezzato, per la logica delle cose economiche, vale a dire per la “contradizion che nol consente”.
Non si può essere nello stesso tempo fautori dell’economia di mercato, come si sosteneva dovesse essere la seconda repubblica e del sistema corporativo nel mercato del lavoro, non si può volere nello stesso tempo l’alta crescita economica e la retribuzione sganciata dal merito e dalla produttività, non si può volere l’azienda legata alla politica e l’azienda impegnata nella sfida dei mercati globali, secondo la logica dell’economia di mercato.
In realtà i primi segni della innaturalità di questo patto e del fatto che esso avrebbe posto in crisi la maggiore impresa manifatturiera italiana, nella sfida dei mercati globali, in cui si presentava ingessata, sono venuti con il referendum abrogativo del 1995, con cui veniva cancellata sia l’iscrizione di ufficio a un sindacato, per tutti i lavoratori, che aveva consentito alla triplice sindacale, trainata dalla CGIL di assidersi al centro della scena nazionale, assieme alla magistratura, sia la presenza automatica della triplice sindacale in tutte le aziende private e pubbliche e in tutte le pubbliche amministrazioni, indipendentemente dal fatto se essa avesse firmato i contratti collettivi di lavoro che le regola.
L’articolo 19 dello statuto dei lavoratori sulle rappresentanze sindacali aziendali sino ad allora aveva disposto che le “rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito: a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva”. Con l’approvazione del referendum abrogativo è stato stabilito che le “rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva”.
Si è trattato di una duplice “rivoluzione silenziosa”. Da un lato le organizzazioni sindacali minori, quelle che non erano state inglobate nella triplice sindacale , egemonizzata dalla CGIL , erano messe sullo stesso piano della triplice, a livello di rappresentanza sindacale in azienda e negli uffici pubblici. Dall’altro lato solo i sindacati che avessero firmato i contratti collettivi valevoli in quelle aziende e in quegli uffici, potevano rappresentare i lavoratori , nella interpretazione e applicazione dei contratti in questione. Venivano rimesse in vigore – per i contratti collettivi di lavoro – le regole del diritto civile per cui i contratti regolano i rapporti fra le parti in base alla volontà delle parti stesse , senza interferenze di terzi, stabilite dal diritto pubblico. Non si è trattato di un caso. Infatti quegli anni erano contrassegnati, nel sentire comune, da una ventata di recupero dei principi di libertà.
E la sostituzione della seconda alla prima repubblica, era sentita dai più, come un movimento in tale direzione, mentre si perpetrava il “grande inganno” di un modello neocorporativo, con due nuovi centri di potere, quello sindacale e quello della magistratura sovrapposti al parlamento e del governo. La rivoluzione, connessa al nuovo articolo 19, così è rimasta sotto traccia. Gli effetti pratici della modifica dell’articolo 19 sono stati per lungo tempo vanificati dal protocollo del 1993 sottoscritto da dalla triplice sindacale, dal governo e dalla Confindustria, allora guidata dalla Fiat, che ha stabilito che a livello aziendale non vi sono più le RSA, ossia le rappresentanze sindacali aziendali formate dai sindacati che hanno sotto scritto i contratti aziendali, bensì le RSU, le rappresentanze sindacali unitarie: il nuovo CNL sindacale , egemonizzato dalla CGIL, egemonizzata dall’ex PCI. Le RSU inoltre sono competenti a firmare i contratti aziendali ed ad applicarli.
Poiché la Confindustria, sino ad ora, non ha disdetto il protocollo del 1993, non sarebbe stato possibile per Fiat auto offrire ai sindacati che ci stessero il nuovo contratto basato su regole di produttività e di controllo degli assenteismi, senza il consenso di tutti e tre i sindacati delle RSU. La sola soluzione stava nel dichiarare che Fiat auto non intende far parte di Confindustria e, pertanto, non è vincolata dal protocollo del 1993. Così Fiat auto, cioè Fiat spa, non facente parte di Confindustria ha chiesto ai sindacati dei lavoratori di sottoscrivere il nuovo contratto di Mirafiori e quello di Pomigliano, sulla base delle deroghe al contratto nazionale metalmeccanici concordate con loro, e il consenso è stata dato dai quattro sindacati liberi che avevano appena concordato le modifiche a tale contratto nazionale.
Non lo ha dato FIOM, aderente a CGIL che non aveva firmato tale contratto nazionale e non gradisce questo contratto aziendale. Ora , pertanto, automaticamente FIOM è esclusa dalla rappresentanza aziendale, ai sensi dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori. Questo statuto, che sino ad ora per la CGIl, la FIOM e per la sinistra ex comunista era sacro, ora non lo è più. Loro chiedono che il governo vari una legge per modificarlo. E’ una richiesta doppiamente assurda ed autolesionista. In primo luogo lo è, perché se si può modificare l’articolo 19 dello statuto dei lavoratori con una legge, allora non è più scandaloso che si modifichi, nella sostanza, per legge, anche l’articolo 18, riguardante i licenziamenti senza giusta causa da e fondato motivo sostituendo l’obbligo di reintegro nel posto di lavoro con un indennizzo pecuniario.
In secondo luogo, se è possibile modificare con una legge l’articolo 19 dello statuto, nel testo che risulta da un referendum abrogativo, allora l’arma referendaria che la sinistra suole brandire, contro le leggi del centro destra, non è più uno strumento efficace. Ed anche qui la sinistra contraddice in modo grave sé stessa, ammainando un’altra sua bandiera. Dunque, questa richiesta della CGIL e della FIOM è un boomerang. E non è chiaro se gli ambienti confindustriali che la propugnano e la grande stampa che la caldeggia abbiano, come pensiero nascosto, quello di spezzare il mito dello Statuto dei lavoratori oppure siano mossi solo dal desiderio di rimanere nel legame corporativo con la CGIL, che ha fruttato loro non irrilevanti vantaggi nell’intreccio fra potere economico e potere politico.
Forse nella CGIl qualcuno comincia a sentire odore di bruciato. E così si assiste a una frattura fra una parte della CGIL e la FIOM, simmetrica alla frattura interna al PD e a quella interna alla Confindustria. Dato ciò, con l’attuale maggioranza di governo, una legge che vanifichi il referendum del 1995 non ha alcuna probabilità di essere approvata.
Nella battaglia di retroguardia in cui la FIOM è impegnata, le restano due sole possibilità. La prima è quella di partecipare ai referendum di Mirafiori e Pomigliano cercando di fare dire no al nuovo contratto collettivo da parte della maggioranza dei lavoratori, in modo da affossarlo, da far cadere il titolo Fiat in borsa e da indurre Marchionne a rinunciare al programma di rilancio di questi stabilimenti, che vivacchieranno, sino a quando i pensionamenti e prepensionamenti non li avranno condotti alla chiusura. La seconda è quella di estraniarsi dal referendum e continuare chiedere agli altri sindacati e a Confindustria di studiare nuove regole di compromesso di rappresentanza sindacale, aprendo un annoso tavolo di trattative, che si sfilaccerà per stanchezza, mentre i nuovi contratti collettivi aziendali entreranno in vigore e ci si abituerà alle loro nuove regole, rendendo sempre più improbabile un ritorno al passato.
Non solo la CGIL è divisa. Anche PD è diviso. E la sinistra è spaccata. E una posizione di centro equidistante, in questo caso non è possibile. Chi sostiene che questo governo non ha numeri sufficienti per governare, dovrebbe, piuttosto, domandarsi se l’opposizione ha numeri sufficienti per esercitare un ruolo, fermo restando che il governo tecnico oramai non è più possibile, perché non c’è più una maggioranza alternativa.