Finale di partita
07 Febbraio 2021
E’ giovedì 4 febbraio. Faccio parte di una delle delegazioni parlamentari che incontrerà Mario Draghi, presidente incaricato di formare un governo di unità nazionale. Entro nella stanza dove si svolgerà il colloquio e la scena che mi si para davanti è surreale. Come, d’altra parte, sono stati surreali tanti momenti di questa crisi.
Nell’ampia magnificenza della Sala della Regina di Montecitorio quasi si perde la figura di quello smilzo Servitore dello Stato. Mario Draghi è solo nel suo spezzato grigio-blu, unici accessori la sua consumata sicurezza, una stilografica e un foglio di carta bianca sul quale prendere qualche appunto. Ai lati del tavolo, debitamente distanziati come da protocolli anti-covid, due funzionari gentilmente messi a disposizione dalla Camera dei Deputati col compito di stenografare gli incontri.
L’istantanea è scarna, essenziale come un dipinto di Cezanne. Tutto è così diverso dalle scenografie ad effetto – come minimo dalla ricercatezza – che hanno accompagnato la politica degli ultimi anni e i suoi rituali. Così diverso dal tavolino, studiato ma non per questo meno stravagante, che poco prima era comparso in una piazza vicina, davanti a Palazzo Chigi. E’ come se la post-verità, alla fine, si sia arresa alla verità, lasciando sul campo solo quel che veramente resta una volta depurata la scena dagli orpelli.
E quel che resta è un Paese annichilito da un anno di pandemia. E’ una campagna vaccinale difficile, che stenta a decollare e che, invece, potrebbe limitare le vittime sulla soglia dei centomila morti e avvicinare il tempo della ripartenza. E’ un debito fuori controllo che farà sentire tutto il suo peso quando il grande ombrello che si è aperto a livello internazionale per parare i colpi dovrà per forza chiudersi. E’ un’economia reale avviluppata nella morsa di una crisi durissima. E’ un numero enorme di persone che rischiano di perdere il lavoro e che, alla fine, potranno essere salvate davvero solo se ci sarà ripresa. E’ un finanziamento europeo di 200 miliardi fin qui trattato come un fondo ordinario, e che invece va arpionato con le unghie e non va sprecato. E’ una classe politica esausta, che di fronte a tutto questo ha pensato di poter continuare a giocare con le formulette, a litigare su un nome da mantenere o da sopprimere nelle caselle ministeriali e para-ministeriali e che, per questo, alla fine è stata giustamente travolta e costretta a consegnarsi alla speranza rappresentata da un Servitore della Stato.
Sembra quasi una legge del contrappasso. Popolo ed élite in Italia non hanno mai trovato un equilibrio se non nelle teorie di qualche grande studioso che, come Gaetano Mosca, quando parlava di “classe politica” non si riferiva ai soli politici ma più in generale ai ceti dirigenti del Paese. Per il resto, sin dall’unità, il pendolo è oscillato tra un “populismo” di facciata e un “oligarchismo” di sostanza senza trovare quella sintesi che è propria delle democrazie mature: per un Tancredi che si faceva garibaldino vi è stato sempre uno Chevalley che scendeva fin nella più profonda Sicilia nel tentativo di conquistare le oligarchie a un nuovo potere.
Questa mancata integrazione tra Orleans e Bonaparte nel nostro Paese, d’altro canto, è anch’essa alla base della mancata legittimazione della politica e dei politici: tributari di servo encomio quando potenti; scaricati, vilipesi, persino condannati appena tornano mortali. E la “legittimazione negata” è stata in fondo la colonna sonora di questa legislatura: apertasi con il trionfo del “vaffa”, culminata col commissariamento dell’improvvisazione politica.
Proprio quest’epilogo, però, incredibilmente potrebbe restituire una nuova speranza alla politica. Non solo perché, alla fine, si è dovuto ammettere che quando la realtà bussa alla porta e la nazione è in pericolo molte preclusioni ideologiche, al netto delle intatte (e sacrosante) differenze ideali, appaiono quello che in realtà sono: anatemi antropologici. Non solo perché stiamo vedendo veti e distinguo cadere l’uno dopo l’altro come mele marce da un albero. Non solo perché ci accingiamo a osservare donne e uomini che fino a ieri si urlavano addosso essere costretti a lavorare fianco a fianco per riemergere dalla più grave emergenza della storia repubblicana. Non solo perché, insomma, in termini di legittimazione reciproca il governo che sta per nascere varrà più di dieci bicamerali.
C’è anche un altro motivo, più politico. Alla fine, quando il governo “Draghi 1” diventerà realtà, la scena ci consegnerà due schieramenti che fanno capo a uno stesso Presidente del Consiglio: da un canto un centrodestra monco per la non partecipazione dei Fratelli d’Italia; dall’altro la coalizione del mancato “Conte 3” – Leu, Pd, 5 Stelle – orfana di quel Renzi la cui geniale irresponsabilità tutto questo ha innestato. E, preponderante, una lista di problemi urgenti, vitali da affrontare. Infine, sullo sfondo, l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica.
Stavolta potrebbe non trattarsi della rituale contrapposizione tra tecnici e politici. Da questi elementi, in questo lasso di tempo, potrebbe maturare la sostanza di una nuova stagione politica che non avrà nulla – o avrà molto poco – di quella esausta che, arrendendosi, ha concesso lo spazio perché il “Draghi 1” potesse prendere vita. I cambiamenti si avvertono già da ora a livello di singole forze politiche, di assetti e di schieramenti; inevitabilmente dovranno investire anche le regole e il funzionamento delle istituzioni. Perché quella che abbiamo vissuto è una crisi di sistema. L’esito non ci dispiace, perché un gabinetto di guerra in un quadro di unità nazionale è la ricetta avanzata dal gruppo al quale appartengono fin dal primo giorno della pandemia. Ma in assenza di una crisi di sistema non sarebbe stato possibile che la proposta della più piccola tra tutte le forze politiche potesse alla fine diventare realtà.