Finalmente un 25 aprile normale se la sinistra rinuncia ai cortei anti-Cav
25 Aprile 2010
Forse quest’anno, grazie anche al buon senso di Pier Luigi Bersani, le celebrazioni del 25 aprile potrebbero svolgersi nella stessa atmosfera di festosa concordia comunitaria che, nelle grandi democrazie occidentali, caratterizza le ricorrenze nazionali—penso al 14 luglio, in Francia, o al 4 luglio negli Stati Uniti. Se così fosse, si aprirebbe davvero una nuova pagina nella storia italiana giacché sarebbe il segno di un’inversione di tendenza vanamente auspicata da sessant’anni. L’anniversario della Liberazione, finora, è stato il momento in cui una parte del paese ha delegittimato l’altra, presentandola come un corpo estraneo, una malattia da cui non si era ancora guariti e contro cui occorreva vigilare (‘no pasaran!): si è celebrato l’esito di una <guerra civile> non la fine di una <guerra di liberazione> dallo straniero. E nello stesso tempo, con lo slogan <la resistenza continua>, si è fatta valere la componente ideologica e palingenetica della lotta contro il nazismo e i suoi alleati fascisti. Il regime totalitario, riapparso per un momento a Salò con le sembianze di un fantasma, è assurto a simbolo di una società capitalistico-borghese giunta ormai al capolinea tra devastazioni morali e materiali di ogni genere e, per converso, le forze che hanno contribuito ad abbatterlo sono diventate i crociati di un mondo nuovo, in cui gli stati non avrebbero avuto altro valore che quello di strumenti secolari al servizio di un’idea sovranazionale, di una nuova civiltà—naturalmente rappresentata dai paesi in prima linea contro l’imperialismo e lo <sfruttamento dell’uomo sull’uomo>.
Si è parlato della Resistenza come secondo Risorgimento ma nulla richiamava, nella prima, lo spirito e le memorie del secondo. Quando nell’Italia sabauda, si festeggiavano le ‘guerre di indipendenza’ nessuno pensava di rievocare, per bruciarle in effigie, le ombre esecrate dei ‘collaborazionisti’, degli autriacanti, dei papalini e dei filo borbonici—che pure furono non pochi–: non erano essi a far la parte principale dei ‘cattivi ma il giudizio di condanna ricadeva su chi aveva occupato il suolo patrio e ne era stato cacciato grazie al sacrificio dei martiri e degli eroi. Nella Festa della Liberazione, invece, il tema del <sacro territorio> della patria invaso dallo straniero era così poco centrale da far cadere nell’oblio gli episodi di resistenza armata contro i tedeschi di cui furono protagonisti ufficiali e truppe dell’esercito regio Questi ultimi, infatti, non erano portatori di ‘messaggi universali’ ma intendevano unicamente restituire alla vecchia Italia la padronanza del proprio destino: si battevano per tornare all’antico, allo status quo ante, cancellando d’un colpo le lezioni della storia più recente e frustrando le attese della rivoluzione culturale, sociale e politica coltivata nelle menti e nei cuori dei partiti politici (comunista e azionista) che più avevano contribuito a ingrossare l’esercito partigiano.
Per fortuna, siamo entrati in un’epoca di maggiore realismo. Oggi sappiamo che gli stati nazionali sono in crisi ma che nessun altro tipo di organizzazione ne ha preso il posto, sappiamo che, per quanti errori si siano potuti commettere da parte dei nostri antenati, le ragioni per restare uniti superano decisamente quelle per dividerci. E soprattutto abbiamo preso coscienza che la ‘democrazia liberale’, restituitaci dalla Resistenza, è il minimo comun denominatore di tutti i partiti presenti nel Parlamento e della stragrande maggioranza delle culture politiche presenti nella società civile. Forse siamo entrati nell’età adulta ovvero in quell’età in cui, guardando al passato, nel caso dei <due Risorgimenti>, si mette da parte <quel che è andato storto> e ci si concentra, al contrario, su <quel che è andato dritto>, sul patrimonio istituzionale che ci è stato trasmesso e che oggi costituisce un bene prezioso per tutti, per i vinti come per i vincitori della storia: la comunità politica (Risorgimento), la democrazia (Resistenza).
(da Libero)