Fini dovrebbe sapere che in Italia tassare il risparmio è molto pericoloso

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Fini dovrebbe sapere che in Italia tassare il risparmio è molto pericoloso

26 Ottobre 2010

Torna il tributo sulle rendite finanziarie che, incomprensibilmente, Gianfranco Fini sembra volere destinare al finanziamento della riforma universitaria.

L’emendamento che riguarda i ricercatori universitari e che ha fatto momentaneamente accantonare la riforma Gelimini, per mancanza di copertura, costa 480 milioni a regime e una cifra molto inferiore per ciascuno degli anni a venire sino al 2016.

La tassazione delle rendite finanziarie, vale a dire l’imposta sostitutiva sulla tassazione dei redditi di capitale, prima che scoppiasse la crisi, rendeva un punto di Pil, ossia circa 15-16 miliardi di euro annui. Essa ha, attualmente, una aliquota del 12,5%. E secondo le dichiarazioni dell’onorevole Giancarlo Fini, così come disponibili nelle agenzie di informazione, egli proporrebbe di raddoppiarne l’aliquota, portandola al 25%.

In linea teorica, ammesso che la maggiore aliquota non faccia flettere il rendimento di ogni punto di aliquota del tributo, il maggiore introito sarebbe, in condizioni normali, di 16 miliardi annui di euro. Cioè circa 32 volte la somma necessaria per finanziare, a regime, la maggior spesa che occorre per dare a 9 mila attuali ricercatori universitari un posto di professore associato, previo concorso per titoli e per merito.

Non si riesce a comprendere per quale motivo sull’Università dovrebbe arrivare, annualmente, un maggiore finanziamento di 16 miliardi di euro. Infatti la spesa complessiva delle Università in Italia nel 2008 è circa 14 miliardi di euro annui. Fini vuole forse destinare un punto di Pil tratto dall’aumento dell’imposta sulle rendite finanziarie a un fondo speciale per il finanziamento ordinario delle Università, fermo restando il volume attuale di spesa?

Si tratterebbe, come spiegherò fra poco, di una pessima soluzione, perché questo tributo, per sua natura, ha un gettito annuale che fluttua, in relazione al ciclo economico. Oppure Fini vuole raddoppiare la spesa per le Università? Questa seconda soluzione appare doppiamente improponibile. Infatti sino ad ora la riforma ha mirato contenere la spesa migliorando il servizio tramite l’aumento dell’efficienza. Se è vero che il diniego alla assunzione in cinque anni di 9 mila associati, scelti fra gli attuali ricercatori per sostituire parzialmente i professori che stanno andando in pensione in numero superiore, è una misura eccessiva, rimane però vero che per risolvere questo problema basta mezzo miliardo annuo, non ne occorrono 16. Ma forse Fini ha altri motivi per proporre una maggiorazione di questa entità della tassazione delle rendite finanziarie.

In attesa di individuarli conviene osservare che la proposta del governo Prodi di armonizzazione della tassazione delle rendite finanziarie e immobiliari mirava a una aliquota unica del 23%. E la tassazione con una imposta secca dei redditi degli immobili dati in affitto per uso abitazione stabilita dall’attuale governo è del 20%. Le proposte europee di armonizzazione della tassazione delle rendite finanziarie mirano a una aliquota massima del 18%, che deve essere aumentata per i redditi finanziari ottenuti nei cosiddetti paradisi fiscali. Nessuno sino ad ora ha proposto un aumento al 25% dell’aliquota di questo tributo. E il raddoppio di un tributo esistente, in generale, non è una misura prudente quando gli ordini di grandezza in gioco siano percentuali come quelle considerate. In ciò c’è qualcosa di stranamente dilettantesco, in una materia su cui non conviene scherzare.

I redditi da capitale racchiusi nel termine corrente (non tecnico, ma demagogico) di “rendite finanziarie” sono i dividendi e altre erogazioni di redditi delle società di capitali, gli interessi su titoli e su altri prodotti finanziari a reddito fisso, diversi dai depositi bancari tassati attualmente al 27% (l’aliquota differenziale ha il precipuo scopo di indurre i risparmiatori a non tenere denaro ozioso in banca, al di là di quello che loro serve come riserva di liquidità, ma ad investirlo), i proventi derivanti dall’aumento di valore di titoli azionari o a reddito fisso. Solo questi ultimi proventi sono, dal punto di vista economico, “rendite”. Gli interessi sul capitale non sono rendite e non sono neppure i profitti, distribuiti dalle società.

Chiunque studi un libro di economia del primo anno di università sa che il prodotto nazionale è costituito dai compensi del lavoro denominati salari, del capitale finanziario denominati interessi, delle imprese denominati profitti, da quelli del capitale immobiliare e del capitale immateriale denominati, appunto, rendite. In aggiunta, sono denominati “rendite” anche i guadagni di capitale derivanti dalla variazione di valore dei beni.

Dunque il termine “rendite finanziarie” per gli interessi sui risparmi a reddito fisso e per i proventi dei titoli azionari è fuorviante, indica qualcosa di diverso dal vero. In ogni caso, i profitti delle società sono tassati presso le medesime con una aliquota del 28% a cui si aggiunge l’Irap, con un gravame del 4,5-5% dei profitti, del costo del lavoro e degli interessi passivi. La cedolare secca del 12,5% sull’azionariato diffuso si aggiunge alla tassazione delle società appena indicata. Quanto agli interessi passivi, innanzitutto va detto che una parte di essi è compenso per l’inflazione. Quando essa è lo 1,5 %, come attualmente, un titolo che abbia un rendimento nominale del 3% (rendimento non facile a trovarsi) ha un reddito reale dello 1,5% e l’imposta del 12,5 è in realtà una imposta del 25%, mentre quella del 25% suggerita da Fini è una imposta del 5°%, superiore a qualsiasi aliquota dell’imposta personale sul reddito.

La proposta violerebbe in modo palese il principio di eguaglianza della tassazione a parità di capacità contributiva stabilito dagli articoli 3 e 53 della Costituzione.

Aggiungo che gli interessi sui titoli e sugli altri impieghi a reddito fisso sono tassati anche nell’Irap con l’aliquota del 4,5-5% e, per una parte, nell’imposta sulle società, denominata Ires b. Sicché ,   questo raddoppio della cedolare secca cadrebbe su una basse imponibile già tassata tre volte.

Il gettito della ritenuta sui redditi da capitale, nel 2010 ha subito una brusca flessione, dovuta al non soddisfacente andamento delle borse e al fatto che i tassi di interesse che i risparmiatori attualmente riescono ad ottenere sono molto bassi.

Nei primi sette mesi di quest’anno il tributo ha reso solo 3 miliardi e 781 milioni contro 8 miliardi e 272 milioni nel corrispondente periodo del 2009, con una riduzione del 52,5%. Vogliamo dare una martellata a questa base imponibile in declino del 52%? Il gettito di questo tributo è, per sua natura fluttuante, perché il gettito riflette l’andamento del ciclo economico. E in periodo di crisi esso tende a calare.

In una prospettiva di crescita economica, in un paese con elevato debito pubblico e un modesto sviluppo della borsa, non appare consigliabile tassare il risparmio di massa che è una delle maggiori risorse della nostra nazione. Se non abbiamo una crisi tipo Grecia o Irlanda, o Spagna non è solo perché questo governo ha gestito in modo saggio, tempestivo e prudente il suo bilancio, rassicurando i mercati sulla solvibilità dell’Italia, che pure ha un debito pubblico del 115% del Pil. Lo si deve anche al fatto che in Italia c’è un cospicuo risparmio delle famiglie. Si tratta di un baluardo fondamentale per la nostra credibilità finanziaria internazionale.

Occorre fare estrema attenzione alla tutela del risparmio. Lanciare segnali di guerra al risparmio è un gioco pericoloso. Fortunatamente il Ministro dell’economia e finanza non intende toccare questa cedolare. Per ridurre le imposte ha altri progetti che si compendiano in tre capitoli: evasioni, esenzioni, entrate indirette.