Fini e il futuro della libertà, ovvero come dire tutto e il contrario di tutto
28 Novembre 2010
di Luca Negri
«Quanto più ampia è la platea cui i politici debbono rendere conto, tanto più numerose saranno le loro bugie», Francesco Cossiga
Il manifesto del nuovo corso finiano fa bella mostra di sé dalle vetrine dei bookshop nel novembre di un tormentato 2009. Una strenna natalizia – targata nientemeno che Rizzoli – per chi è ancora disposto a dare credito alle piroette del Nostro. Furbescamente e banalmente chiamato Il futuro della libertà, ha come sottotitolo Consigli non richiesti ai nati nel 1989 e si presenta come lunga lettera indirizzata ai ventenni. Fin troppo buono ci pare Merlo che nel suo La conversione di Fini si limita all’ammettere il «registro narrativo non entusiasmante e affettatamente naif» dell’opera. Poiché riesce difficile immaginare i giovani d’Italia pronti a trascurare i-Pod, discoteche e altri tipici passatempi generazionali per tuffarsi voraci fra le centosessantasei pagine del presidente della Camera, è ovvio che l’epistola è indirizzata altrove.
Ancor più delle intemperanze farefuturiste, si candida a far fiorire commenti ed elogi sulle pagine della stampa democratica, alle presentazioni del sabato sera nel salotto televisivo di Fazio, a far bella mostra di sé nelle librerie della borghesia che si pretende illuminata. Stonerebbe alquanto in quelle dei lettori di destra, anche se posizionata ben lontana dagli Evola esiliati sugli scaffali alti. Invano si cercherebbe in questo libro qualche traccia dell’«ideologia italiana», alla quale viene preferita la marmellata liberaldemocratica europeista puntellata dai roboanti nomi di pensatori più o meno liberali citati a casaccio, tanto perché fa fine e non impegna troppo.
La vecchia volpe Veneziani non si lascia scappare l’occasione e dalle pagine del «Giornale» sottopone il Nostro a interrogazione: dieci domande sui filosofi nominati nel testo. La parodia delle domande reiterate dalla «Repubblica» a Berlusconi, sottintende il fatto che il contributo di Fini al libro si è limitato alla firma in copertina. Il vero autore, svela Veneziani a fine articolo, è Aldo Di Lello. Per quanto ci riguarda, non c’è da indignarsi, gli uomini politici hanno spesso poco tempo per leggere, figurarsi per scrivere, tutti hanno fedeli ghostwriters al servizio. Ovvio che Di Lello abbia messo in bella e comprensibile forma le idee che Fini vuole siano conosciute come sue personali. E dunque noi faremo finta di niente e ci permetteremo di smontare l’opera stando al gioco, considerandola tutta farina del suo sacco.
Il libro che seppellisce la cultura di destra è talmente generico, velleitario e ricolmo di buoni propositi che pare un tema da concorso per il posto da presidente della Repubblica in versione cenone di San Silvestro. Così untuosamente bipartisan che non vi sarebbe da stupirsi se in copertina troneggiasse il nome di Walter Veltroni o Francesco Rutelli. Le danze si aprono ricordando ai ventenni che il lorocompleanno «coincide con un anniversario molto importante:vent’anni fa, mentre voi emettevate i primi vagiti, cadeva il muro di Berlino». Ne consegue che «dalgiorno in cui siete nati, avete respirato la libertà come nessun altro europeo prima di voi».
La libertà, ormai diventata“grande”, è dunque la nuova, unica divinità. Ricordi il lettore una delle tesi di Staglieno, quella sul rifiuto dell’idolatria per la dea Libertà; dieci anni dopo Fini con la parola libertà ci fa i gargarismi. Ai fortunati nati nel mondo postideologico, cresciuti nell’epoca della libertà intende, con il fare da maestrino che mai si è scrollato di dosso, appioppare il destino di Generazione – inrigoroso maiuscolo – Futuro. Giacché l’Italia e l’Europa devono investire sui giovani per costruire il futuro, ovvio. Quella nel futuro deve essere una fede comune, annuncia profetico coniugando – ed è la prima citazionecolta – il teologo eretico Teilhard de Chardin al marinettismopiù messianico.
Ed ecco «l’ottimismo artificiale»di scuola futurista evocato contro i «profeti di sventura»; anche qua l’occhiolino è fatto ai cattolici progressistiche avranno colto il riferimento al discorso d’aperturadel Concilio Vaticano II, quando Giovanni XXIII sbeffeggiò gli apocalittici e i pastorelli di Fatima che promettevanotragedie al pianeta nel nome della Vergine. Brutta cosa il pessimismo, insiste il Nostro; specialmentese boccia per via referendaria – come in Francia,Olanda e Irlanda – il trattato costituzionale europeo e l’accordo di Lisbona, che tante fatiche sono costati a luie ad amici oltre confine. Insomma, i popoli d’Europa sono degli inguaribili pessimisti in preda a «un abbassamento della tensione ideale e politica» se rifiutano la favola bella dell’unità continentale architettata dalle élite tecnocratiche.
Per dare fiducia ai giovani italici serve la solita «grande stagione costituente» e un «rinnovamento della cultura e del lessico stesso della politica», il tutto però senza uscire dal «perimetro della casa comune degli italiani» che è la Costituzione, l’altro idolo del Fini postfascista. Karl Popper viene scomodato per ricordare che, ahimè!, non esiste una società perfetta, ma perdiana, come non stupirsi del fatto che vent’anni dopo l’inizio dell’era della libertà «abbiano ripreso fiato i nemici della società liberale e dell’economia di mercato?». «Non tutti, evidentemente, hanno saputo trarre le giuste lezioni dalla storia». Se lo dice lui, c’è proprio da fidarsi.
Purtroppo viviamo tutti nella «società della paura» che percepisce «il migrante come diverso». E qua Fini si guarda bene dal fare autocritica rammentando ai ventenni che mentre loro emettevano i primi vagiti lui andava a braccetto con Le Pen e altri euroxenofobi assortiti.
Anche sul Sessantotto il giudizio è cambiato; nel libro con Staglieno era ancora una «caldaia di disordinato pressappochismo e demagogia» – definizione così bella che ci stupiremmo se fosse farina del suo sacco –, ora che occorre conquistare quelle che il compianto Berselli chiamava le «professoresse democratiche», ci si può abbandonare agli elogi di quella generazione che ha reclamato la libertà «a trecentosessanta gradi». «Era la voglia di liberazione che nasceva dalla modernizzazione»; chissà che brividi avran provato i vecchi evoliani in rivolta contro il mondo moderno a leggere tale sentenza. L’unico guasto della cultura sessantottina è stato quello di essersi ideologizzata dopo i primi spasmi libertari,che nel suo caso si riducevano al voler gustarsi Berretti verdi.
Dato che si parla di muro di Berlino, non puòmancare una menzioncina al capolavoro dei Pink Floyd, The Wall. Segue uno sperticato elogio della "generazioneX" degli anni ’80, dei paninari edonisti che hanno addirittura «aperto concretamente la strada alla libertà» e tradotto «in costume di massa […] il definitivo tramontodelle ideologie». Loro sì che avevano capito tutto spendendo i soldi di papà per piumini Moncler e dischi dei Duran Duran mentre il Nostro si ostinava a comiziare nelle piazze parlando ancora dei valori dello spirito.
Finalmente, siamo a pagina 46, compare la parola «fascismo». Non che Fini si disturbi a raccontare ai ventenni il suo giovanile errore in camicia nera. Se non lo sanno,peggio per loro (e speriamo, si sarà detto il Nostro, che i padri se ne siano dimenticati, o che i ventenni non si fiondino su Wikipedia). Questa elegante omissione è la tappa terminale del ripulimento finiano, del suo cancellare le tracce. Il fascismo è citato come nemico della libertà in compagnia di franchismo spagnolo, salazarismo portoghese, comunismo sovietico e nazismo.
Senza troppesottigliezze, tutto rientra nel grande calderone del totalitarismo (scontata la citazione della filosofa Hannah Arendt che sull’argomento scrisse parecchio). Tutto schifo del secolo passato, schifo che il Nostro, nato nel mezzo di quel secolo, pretende di aver allontanato dalla sua idea di politica. Quel che rimane non è neanche destra, ma un centro provinciale e sbiadito. L’unico autore citato che è genuinamente di destra è l’inglese Roger Scruton, definito «vivace pensatore realista»; meglio non chiamarlo più opportunamente «conservatore», parola che guasterebbe in mezzo a tutti questi elogi del futuro.
Tratto da Luca Negri, Doppifini, l’uomo che ha detto tutto e il contrario di tutto, prefazione di Camillo Langone, Vallecchi 2010, pp. 147-151
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