Fini fa l’antifascista ma la sua è più che altro una “svolta linguistica”
21 Dicembre 2008
A suo modo, il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha operato una «svolta linguistica». Ha capito che, se vuole liberare la propria immagine da un passato che – evidentemente – continua ad avvertire come ingombrante, è sul terreno delle “parole” che deve giocare una partita decisiva: non su quello delle “idee” e dei “fatti”. Così, in alcune dichiarazioni degli ultimi mesi, ha fatto proprie una serie di “forme discorsive” estranee al mondo di cui è espressione politica. Con ciò non intendo assolutamente tacciarlo di insincerità e ridurre il suo comportamento a un esercizio di cinismo. Né, tanto meno, sostenere che i problemi da lui posti siano fittizi: tutt’altro. Ma è il modo in cui li pone, le espressioni a cui ricorre, le “retoriche” a cui ora aderisce, che fanno di tali dichiarazioni qualcosa d’altro. Forse un paio di esempi potranno chiarire ciò che intendo dire.
Nel settembre scorso, tutti i giornali italiani riportarono e ampiamente commentarono alcune sue esortazioni ai giovani di AN affinché si riconoscessero nei valori «che sono nel pantheon dell’antifascismo». “Bella Immortal! Benefica Fede (nella libertà) ai trionfi avvezza!”, ci sarebbe da esclamare, se uno non avvertisse subito, in quelle parole, qualcosa di forzato. E’ possibile che abbia dimenticato che per oltre quarant’anni l’antifascismo ideologico è stato una «formula» funzionale a determinate strategie di legittimazione politica? Che il paradigma antifascista è servito (in campo culturale e politico) per fondare gerarchie di valori e di comportamenti che hanno sortito conseguenze politiche di lunga durata? Non è possibile: tanto che si è affrettato ad aggiungere che «non tutti gli antifascisti in Italia erano democratici». E allora perché un leader come lui, che rappresenta un certo popolo italiano, invece di oltrepassare definitivamente quegli schemi, ha sentito il bisogno di ribadirli? Perché non si è richiamato contestualmente anche ai valori dell’anticomunismo? E’ giunto a pensare (come alcuni insigni storici) che solo l’antifascismo ha natura valoriale, mentre l’anticomunismo altro non è che una “retorica” da destrutturare?
Insomma da un uomo politico del suo calibro ci si sarebbe aspettati l’uso consapevole di un altro linguaggio: che, per esempio, parlasse di antitotalitarismo. Non l’ha fatto e non credo si sia trattato di un lapsus, ma di un adeguamento linguistico, che intendeva manifestare l’accettazione di un paradigma più complessivo.
Più volte, poi, ha fatto dichiarazioni assai impegnative sulle leggi razziali del 1938, dichiarazioni a cui non si può che aderire incondizionatamente. Non solo quando ne ha sottolineato l’infamia, ma anche allorché ha constatato la diffusa indifferenza con cui furono accolte dalla società nazionale. Un recente volume (fra i tanti che si potrebbero ricordare) di Marie-Anne Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, pubblicato quest’anno dal Mulino, fa un quadro veramente doloroso per il lettore italiano: dipinge un fascismo che adotta una politica priva di reali radici al suo interno come nella società, auspicata solo da piccoli gruppi di ideologi antisemiti e di “scienziati” razzisti; l’adotta perché ormai l’antisemitismo – sull’esempio tedesco – è entrato a far parte del bagaglio ideologico dell’estrema destra europea e allo scopo di operare un’ennesima “galvanizzazione” totalitaria dell’opinione pubblica. Dimostra inoltre come la campagna razziale sia durata in effetti solo pochi mesi e come le riviste (per esempio «La difesa della razza») che se ne fecero promotrici e la sostennero, abbiano avuto sempre pochissimi lettori, tirando avanti solo per i ripetuti finanziamenti del governo. Eppure, i provvedimenti legislativi che allora furono presi cominciarono a operare, più o meno rapidamente, ma implacabilmente. Negli anni successivi, tutti i congegni dell’amministrazione pubblica, statale e comunale, se ne fecero esecutori con lo stesso atteggiamento di burocratico adeguamento che avrebbero potuto impiegare nell’applicare una nuova normativa sugli enti di assistenza o sulla nettezza urbana.
Così migliaia di ebrei italiani furono presi in un ingranaggio inesorabile. Che le leggi discriminatorie del 1938 abbiano poi paradossalmente “salvato” gli ebrei italiani e quelli delle zone occupate dal nostro esercito durante la guerra (Francia meridionale, Croazia) dall’immediata deportazione; che quindi questo tragico capitolo si sia aperto per loro solo dopo l’8 settembre 1943, dopo cioè l’invasione tedesca; che un tale “ritardo” (oltre che la larga ospitalità offerta dalle strutture ecclesiastiche) abbia fatto sì che percentualmente l’ebraismo italiano sia stato forse quello che ha sofferto un minor numero di vittime nell’Olocausto; tutto ciò non attenua minimamente la portata obbrobriosa di quelle leggi. Le quali ebbero conseguenze umanamente ancor più drammatiche per il fatto che gli ebrei italiani non costituivano certo un ambiente d’opposizione al regime, che anzi godeva fra loro di un diffuso consenso. Ancora la Matard-Bonucci documenta (ma erano vicende già largamente note) le tragedie individuali e familiari dei tanti ebrei, rimasti fascisti e patrioti anche dopo il 1938, che cercarono invano di essere richiamati alle armi allo scoppio della guerra e seguirono con angoscia le vicende della catastrofe militare italiana. Anni fa mi capitò di studiare la figura di Emanuele Artom, un martire della Resistenza piemontese: ebbene, l’8 settembre 1943, annotava nel suo diario che, nonostante tutto, suo padre (il matematico Emilio Artom) era «un po’ mortificato» per l’armistizio e per la sconfitta!
Ora in tutta questa tragica vicenda, l’on. Fini ha sentito il bisogno di evidenziare soprattutto la passività della Chiesa cattolica. Anche qui bisogna ripetere che il problema a cui accenna è tutt’altro che storicamente insussistente, tanto che se ne discute da mezzo secolo. Ma è uno di quelli che più è stato segnato dal tentativo di giungere, non tanto a un’effettiva comprensione delle vicende storiche, ma a una resa dei conti epocale. E ciò – si badi bene – non solo in ambienti e culture esterne alla Chiesa, ma anche intra moenia: la “condanna” del suo atteggiamento in quegli anni tragici è stata funzionale al disegno di liquidare definitivamente una certa ecclesiologia e tutta un’impostazione teologica. E’ un dato di fatto che la “leggenda nera” di Pio XII abbia avuto anche in Italia autorevoli mallevadori di parte cattolica: l’edizione italiana del Vicario di Rolf Hochhuth che molti della mia generazione possiedono (Feltrinelli 1964) esibisce un prefazione di Carlo Bo! Insomma il tema dei cosiddetti “silenzi” della Chiesa di fronte al fascismo e al nazismo è uno degli ingredienti classici di ogni discorso “progressista” dei decenni post-bellici ed esso è vivacemente riemerso in quel nuovo mainstream variamente anticlericale (talora antireligioso, spesso anticattolico) che caratterizza i primi anni del nuovo secolo.
Basterebbe seguire settimana dopo settimana i rapporti italo-vaticani dai primi giorni del maggio 1938 (la visita di Hitler in Italia) al 10 febbraio 1939 (morte di Pio XI) per avere invece un’idea della complessità del quadro: lo hanno fatto di recente, con valutazioni anche molto diverse e non sempre (almeno da chi scrive) pienamente condivisibili, Peter Godman (Hitler e il Vaticano, Lindau 2005) ed Emma Fattorini (Pio XI, Hitler e Mussolini, Einaudi 2007) e non è possibile qui neanche riassumere le loro pagine ricche di fatti e problemi.
Ricordiamo solo alcune vicende: nel maggio il mancato incontro di Hitler col papa, che lascia Roma per Castelgandolfo; la precarietà dei rapporti fra la Santa Sede e la Germania nazista per la sua politica persecutoria nei confronti del cattolicesimo tedesco; l’incarico affidato il 22 giugno dal papa al padre gesuita americano John La Farge di scrivere un enciclica contro il razzismo e l’antisemitismo, che avrebbe dovuto intitolarsi significativamente Humani generis unitas. Il 14 luglio viene pubblicato il Manifesto della razza e il giorno dopo si ha il primo intervento critico del papa nel suo incontro a Castelgandolfo con le suore di Notre-Dame du Cénacle. In quell’estate Pio XI tornerà ad attaccare razzismo e nazionalismo il 28 luglio, il 21 agosto, il 6 e il 18 settembre. Il discorso del 6 settembre (il giorno prima era stato emanato dal governo italiano il Provvedimento per la difesa della razza nella scuola italiana) è quello più celebre: «Spiritualmente siamo tutti semiti», disse fra le lacrime Pio XI.
Quell’estate i contrasti fra la Santa Sede e Mussolini giunsero fino al punto di rottura per la questione dell’Azione cattolica. Si trattò di una crisi, per molti aspetti, più grave di quella del ’31 (così la giudica Renzo De Felice), ma che non presentò analoghe drammatiche manifestazioni pubbliche. Soprattutto questa volta lo scontro si concluse con un sostanziale ripiegamento di Mussolini, in quanto l’accordo Starace-Vignoli del 20 agosto manteneva lo status quo ante e quindi sanzionava il ricompattamento dell’Azione cattolica avvenuto negli anni precedenti.
Nel settembre si apre la crisi internazionale che porterà alla conferenza di Monaco, durante la quale, il 29 settembre, Pio XI in un drammatico radiomessaggio offrì la propria vita a Dio in cambio della pace e inviò un messaggio a Beneš, leader di un paese che le democrazie stavano sacrificando. Il 5 ottobre il governo fascista proibì ai giornali cattolici di intervenire sulla questione razziale, fosse pure riferita alla Germania: evidentemente le loro posizioni dei mesi precedenti non erano piaciute. Il giorno successivo il Gran Consiglio emana le direttive sui matrimoni misti, che sono alla base dei decreti governativi del 10 novembre: si apre il famoso vulnus del Concordato (sostanzialmente quei decreti negavano effetti civili al matrimonio religioso contratto da un ebreo convertito al cattolicesimo con un cittadino di «razza ariana»), che non venne risanato nei mesi successivi nonostante le veementi proteste del papa, che si rivolse direttamente con una lettera anche al re d’Italia. Intanto in Germania si ha la “notte dei cristalli” o, come si preferisce dire oggi, la Reichspogromnacht, la “notte del pogrom” (9-10 novembre 1938).
Sono le ultime, drammatiche settimane della vita di Pio XI: il 29 dicembre, il papa riceve a lungo l’ambasciatore inglese presso la Santa Sede, Osborne, il quale invia al Foreign Office, in genere tutt’altro che tenero verso il Vaticano, un dispaccio che forse conviene rileggere: «I rapporti fra il governo di Sua Maestà e il Vaticano in questo momento sono particolarmente soddisfacenti. Ciò è dovuto a varie ragioni, fra cui la crescente paura del Vaticano riguardo al nazismo tedesco e, si deve aggiungere, al fascismo italiano… Ora che si è giunti al conflitto sulla questione razziale, che non tiene conto di principi fondamentali della Chiesa cattolica romana, è difficile capire come i due sistemi possano mai funzionare di nuovo insieme in armonia. Affrontando questa minaccia all’opera della Chiesa in Germania e in Italia, il papa attuale, anziano e debole di salute, ha mostrato un grande coraggio. Ora è in evidente conflitto con gli stati totalitari… È naturale che cerchi il sostegno nelle grandi democrazie, in cui il cristianesimo è ancora accettato come la regola che dovrebbe guidare la vita pubblica e la vita privata… Il papa è un uomo vecchio e probabilmente morente; quali che siano le ragioni, negli affari internazionali sta seguendo una politica che invero corrisponde molto da vicino alla nostra, nelle principali questioni di principio».
Il giorno dell’Epifania 1939 i card. Schuster a Milano e Nasalli Rocca a Bologna (e il delegato apostolico in Turchia, mons. Roncalli a Istanbul) si pronunciarono pubblicamente contro le discriminazioni anti-ebraiche, suscitando l’ira di Farinacci e le proteste del governo italiano.
Per comprendere le “reazioni” della Santa Sede alle leggi razziali, bisogna tener conto di questo quadro drammatico. Mancò – si afferma – una posizione “profetica”, una condanna esplicita e solenne. Essa avrebbe probabilmente comportato la crisi definitiva del regime concordatario, cioè dell’unica difesa giuridica che le organizzazioni cattoliche mantenevano nello Stato totalitario, con la conseguenza di rompere col governo italiano e di rinunziare a ogni ulteriore tentativo di evitare il suo totale allineamento con la Germania nazista (prospettiva – com’è noto – che il Vaticano cercò inutilmente di evitare fino in fondo). Si preferì così la protesta ripetuta alla condanna solenne.
Nei comportamenti di alcuni settori del cattolicesimo italiano pesarono anche condizionamenti culturali e teologici di altro segno? Certo, come si vide nelle esternazioni di alcuni noti ecclesiastici (il padre Gemelli) e nel diffuso “legittimismo” del clero. La protesta per il vulnus del Concordato ebbe un carattere eminentemente “corporativo”? Anche questo è stato più volte sottolineato: in un mondo di Stati nazionali sempre più “onnipotenti”, una tradizione secolare spingeva la Chiesa a difendere in primo luogo i propri spazi piuttosto che, più generalmente, i diritti “umani” (ma chi lo faceva?). E’ probabile che in una parte delle gerarchie e del clero e anche fra i fedeli perdurassero diffidenze antiche verso gli ebrei, che ora venivano “traditi” da quello Stato italiano a cui avevano guardato per decenni con tanta fiducia, anche come strumento di laicizzazione della società nazionale.
Insomma si tratta di un groviglio di questioni estremamente complesse, in cui in primo luogo lo storico deve dimostrare di saper ben ragionare, evitando errori di impostazione che invece (lo si deve ammettere) affiorano continuamente. Primo fra tutti l’anacronismo, il ritenere, cioè, che valori, atteggiamenti, mentalità, che sono faticosamente scaturiti da grandi esperienze collettive, siano invece sempre esistiti, e quindi possano diventare un criterio di giudizio anche della storia remota; e così di esigere dagli uomini del passato una lucidità sugli avvenimenti dei propri tempi, una nettezza di giudizio, una risolutezza di scelte che noi spesso abbiamo acquisito proprio dall’esame critico dei loro «limiti». Non parlo poi del «moralismo» (oggi si potrebbe dire del «giustizialismo» storico) che Delio Cantimori indicava come l’atteggiamento più funesto per uno studioso di storia. Se questa cautela critica è a lui necessaria, tanto più lo è all’uomo politico: questo non per una questione di competenze, ma – direi – di responsabilità.